Si è visto (quasi) tutto
Contro il Lecce abbiamo ritrovato gioco, vittoria, gol e interpreti, anche quelli più inattesi. A una serata finalmente felice è mancato soltanto il ritorno di Pellegrini. Ma è solo questione di tempo
Ero ancora scosso da quanto vissuto ai tornelli. Mentre cercavo, difatti, con la solita apprensione (che colpisce tutti, non fate finta che non sia così), di farmi dare il via libera da quel visore - costringendomi a scusarmi con la fila che, alle mie spalle, si univa, come un sol uomo, tra uno «Spostate!» ed uno «Se nun sei bono, fatte aiutà!» - mentre cercavo, dicevo, di attraversare quel confine che divide la vita di tutti i giorni dalla Tevere, luogo unico e senza tempo, due frasi incrinavano la mia ferma convinzione in ciò che sarebbe stato.
La prima, raccolta in uno scambio tra due tifosi; la seconda, direttamente da Radio Romanista e direttamente dalla voce del Direttore Lo Monaco. Nel primo caso, quando all’amico, preoccupato delle condizioni meteorologiche («Alle undici dicono che viè a piove») l’altro replicava - evidentemente preoccupato per la Roma - «speriamo non sia un diluvio»; nel secondo, quando la radiofonica voce amica del Direttore lasciava intendere che, a gennaio, Pellegrini potrebbe andare via. Ora, il combinato disposto di quei due momenti, aggiunto alla tensione di fare la figura del nonno che non riesce a fare aprire un tornello, mi gettava in uno stato di apprensione.
Per un attimo, difatti, ipotizzavo quello che sarebbe stato con una Roma battuta dal Lecce e senza il suo Capitano (lo confesso: io sono un pellegriniano non convinto, de più). Salivo le scale, quindi, cercando di scacciare le brutte sensazioni per lasciare spazio alla serena convinzione che si sarebbe vinto tanto a poco, come soltanto pochi minuti prima, in una lunga conversazione romanista con un amico che, con nome di fantasia, chiamerò “Umberto Scialpi detto Umbo”, avevo imprudentemente (perché non si deve mai fare, ed io l’avevo fatto) pronosticato.
Prendevo, quindi, possesso del mio seggiolino, sperando che, con un colpo di teatro, il Mister avesse dato ruolo e fascia a Pelle, che mi trovavo a dovere affrontare “lui”. Lui, che oggi vi presento. Lui, quello che «so’ anni che Pellegrini sta a Roma e quindi è arrivato il momento che se ne deve annà». Lui, con cui mi sono visto costretto, dal momento in cui stava per partire “Mai sola mai” fino al colpo di testa di Dybala, e quindi non per poco, a confrontarmi in un lungo certame dialettico avente ad oggetto “Pelle, sì” (io) e “Pelle, no” (lui). So che l’ansia di conoscere l’esito di questo estenuante duello verbale vi divora.
E, quindi, andrò subito al finale, che mi ha visto, secondo quando stabilito dal seggiolino a me più prossimo, uscire vincitore. Perché quando (lui) ha ritirato fuori la storia che Pelle ha fatto andare via Mou e non ha fatto nulla per De Rossi, gli ho ricordato le parole di Ranieri, che ha chiarito, una volta per tutte, che Pelle, Cristante e Mancini hanno fatto di tutto affinché restasse. Parole, quelle di Ranieri, che valgono, per tutti noi, come la Cassazione. E, questo, senza essermi dimenticato di ricordare al mio interlocutore che Paredes, nei mesi precedenti, aveva giocato poco e male, e che Hummels, invece, non aveva giocato proprio. A dimostrazione che con Ranieri – che «ha il merito di fare giocare il portiere in porta, i difensori in difesa, le punte e le mezze punte davanti» – anche Pelle tornerà quel grandissimo giocatore che tutti abbiamo visto in questi sette anni. Fiero, quindi, dell’esito della mia crociata in difesa del nostro Capitano, mi godevo l’ammonizione comminata a Saelemaekers, figlia, certamente non unica, di tutte le innumerevoli fischiate che, nei decenni, abbiamo visto irrogare contro la Roma («L’ha ammonito perché hanno messo una nuova regola che non si può più calciare il pallone quando ce l’hanno quell’altri?»).
E me la godevo, perché, per l’ennesima volta, potevo dare prova, a gran voce, di avere assistito ad un fenomeno misterioso, che è quello di un arbitro che ha visto cose che solo lui. Poi, però, si passava dall’entusiasmo per la giocata di biliardo che ci portava in vantaggio, alla disperazione per un caso unico in natura, e cioè quello di un cambio di un terzino infortunato che produceva, come ricordava un seggiolino con efficace sintesi, «la felicità per quel giocatore che esce e l’infinita tristezza per quello che entra». Perché la verità è che l’uscita di Celik, imputato di essere meno di quello che la Tevere vorrebbe per quella fascia, gettava i più nello sconforto alla notizia che, a sostituirlo, sarebbe stato Saud. E questo sconforto, avvalorato dai primi minuti in campo del subentrante («Ranieri lo dovrebbe mannà la sera a fa ripetizioni a ’na scola calcio, una qualunque»), si ampliava quando Saud pensava bene di abbattere un avversario («Questo era rigore pure a Rugby»).
Il primo tempo si chiudeva, quindi, con una certa serenità, perché il gioco si era visto, il Lecce aveva visto Svilar solo per il rigore, Saelemaekers aveva deciso di farci stare un po’ sulle spine tirando addosso ad un difensore che si trovava lì, di passaggio. Ma era il secondo tempo che scongiurava tutto, pure la pioggia. Perché Mancini faceva Mancini, Pisilli faceva Pisilli, Elsha faceva Elsha, Konè faceva Konè, e, soprattutto, Hummels e Paredes facevano quello che ancora non te lo spieghi perché non glielo abbiano fatto fare prima (staccata: «Forse avevano firmato un contratto che diceva che nun potevano giocà»). Poi, dopo, ci si metteva pure Chiffi, perché se quella palla avesse preso un’altra traiettoria forse Zale oggi sarebbe più felice. Ma nulla, a quel punto, ci impediva di essere contenti. Perché il gioco s’è visto, il risultato pure, i gol anche («Che voi dì stasera?»). E s’è visto anche Saud, che Dybala ha provato addirittura anche a far segnare («Lo voleva far segnare per forza. Grandissimo Paulo»). S’è visto tutto, insomma. Meno Pelle. Ma è solo questione di giorni. Perché questa Roma ha bisogno del suo Capitano. Che è fortissimo. Checché ne dica lui.
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