La strada di casa
Con l’Atalanta 70 minuti di una prestazione d’orgoglio che non sono bastati. La fiducia in Ranieri nonostante la difficoltà a rendersi pericolosi. Il pensiero di Edo a Firenze
Stiamo entrando in Tevere pieni di romanismo. Non si sa da che parte iniziare. Dal ritorno di Ranieri (“Soltanto lui doveva arrivare”), ad Edo (“Basta con Firenze, che lì fa freddo. Si è sentito poco bene ed è ora che torni a casa sua a Trigoria”), ad Hummels (“Una nemesi”), fino ad arrivare all’esultanza radiofonica di Andrea Di Carlo (la sintesi perfetta dello stato d’animo di tutti noi, dopo questi mesi passati vivendo nella periferia più remota del Campionato e dell’Europa League). Non si sa da che parte iniziare. Ma la verità è che tutti siamo convinti, con l’avvento di Claudio nella doppia veste, che finalmente si sia ripartiti (“Dirigente l’anno prossimo: adesso sì che si ragiona”). E che sia ripartita, stavolta nella giusta direzione, anche la Società. Perché Ghisolfi ha detto, finalmente, anche se con oltre un anno di ritardo (“Meglio tardi che mai”), quello che Mou aveva detto, in quel garage, in rappresentanza di tutti noi.
E va bene, quindi, che sia colpa nostra, che giochiamo male, che tiriamo poco, che segniamo meno, ma quei sette episodi dall’inizio del Campionato avrebbero potuto essere sette punti. E stare a venti, piuttosto che a tredici, stasera, prima di iniziare questa partita, farebbe una certa differenza. Ed è anche per questo che siamo pieni di romanismo. Perché finalmente è la Società che ha seguito noi, che questo lo diciamo da tempo. E Londra, dopo la buona partita di Napoli, ha fatto intravedere una luce nel buio. Poi, però, siccome non ci facciamo mancare niente, qualcosa inizia a serpeggiare.
È che c’è Zaniolo, ed è scontato che finisca male. Sono tre giorni che, alla fine di ogni discorso, la chiusa che “vedrai che segna” è sempre presente. Un po’ per convinzione, un po’ per esorcizzare. Però sta lì, quella frase, come quel leggero mal di testa che ti accompagna per tutta una giornata, che non ti prendi niente perché non ne vale la pena, ma che rimane lì, fastidioso. E poi, comunque, c’è sempre l’Atalanta di Gasperini, che sarà pure un allenatore non bravo ma bravissimo (“E’ un fenomeno: ha vinto l’Europa League col gioco”), ma che alla Tevere sta simpatico come un callo in un paio di scarpe strette (“Posso perde con tutti ma non con lui”). Ci si diede, quindi, con tutti i seggiolini permeati da una certa fiducia. Va da sé, però, che quel “io me sento che stasera facciamo risultato” pronunciato così, con voce ferma, non appena l’intero Stadio chiude l’Inno, produce, quale prima replica, un “eccaallà” dal seggiolino immediatamente prossimo che dà la misura di come entusiasmo e convinzione non sempre combacino con la realtà. Anche se, nei primi minuti, Paredes e Koné provano a dimostrare che non è vero che, nella Roma, segnino soltanto i difensori. Ed è a quel punto che si apre il dibattito (con il senno di poi, mai il silenzio sarebbe stato più d’oro) tra tre seggiolini.
Ovviamente, si parte da un “se iniziamo a segnà pure cò i centrocampisti …” e si finisce con “e se Ranieri recupera pure Pellegrini, che è uno che segna, i problemi sò risolti”. Ovviamente, chi vi scrive stava ascoltando nel più assoluto silenzio questo scambio ottimistico, non perché non ve ne fossero di cose da dire, ma perché prima segniamo, poi parliamo. E, invece, detto, fatto. Quei due tiri rimanevano figli unici, ma la sensazione è che il bandolo si fosse comunque trovato, in un primo tempo che parlava di un Dybala presente in tutta la metà campo avversaria (“Finalmente non lo vediamo più in difesa”), ed un’Atalanta che non dava troppe apprensioni, anche se si rendeva pericolosa per una spizzata di De Ketelaere e per i movimenti di Retegui (“Perché non l’abbiamo preso noi?”), ed anche se il Pichichi iniziava a rinverdire, nei più attempati, il ricordo del buon Musiello.
E l’intervallo, malgrado non si arrivasse con facilità al tiro, era tutto un ritrovato orgoglio. Sì, “questi sono pericolosi e bisogna stare sempre attenti” si sentiva, qua e là, ma la maggioranza era costituita dai seggiolini in cui prevaleva la convinzione che, continuando così, qualcosa di buono si sarebbe fatto. Poi, però, iniziava il secondo tempo e due segnali, purtroppo in negativo, arrivavano in Tevere. Il primo, il centravanti, il tuo centravanti, che, baciato da Dybala, era capace di strusciare (“Dimme che era forigioco …”) un pallone che doveva solo essere appoggiato in porta. E Mancini, sì, lui, il più combattivo, che tardava a rimettere un pallone in campo, andando a recuperalo con passo lento sotto la Monte Mario. A riprova che il pareggio ci andasse bene (“Vogliono il pareggio”). E questo, no. Il pareggio, no. O meglio: non adesso. Non dopo che il Pichichi s’è “magnato” l’uno a zero. Non adesso che tutti noi, la Tevere, la Curva, l’intero Stadio, quelli a casa, Edo a Firenze, tutti noi abbiamo bisogno di un segnale. Che ci faccia capire che non ci interessi il punticino, ma la prova d’orgoglio. Che non ci interessa che giochiamo contro l’ottima Atalanta, ma che ci interessa tornare a dimostrare che siamo la Roma. Che non stiamo lassù, ma che questo stare quaggiù sarà ancora per poco, perché stiamo tornando. E, invece, no. Arrivano i cambi. E lì la partita, almeno la nostra, finisce.
Ci abbassiamo, troppo. E l’Atalanta passa in vantaggio senza segnare, perché il gol ce lo facciamo da soli. Ed a quel punto non c’è nulla da capire, perché è tutto già scritto. E va come doveva andare. Come lo sapevamo da sempre. Come quel leggero mal di testa ci avrebbe dovuto fa capire. Ma siamo sulla strada giusta. Stiamo tornando sulla strada giusta. E non sarà certo una maglia sventolata sotto i festanti tifosi avversari a farci rimangiare tutto quello che ti abbiamo dato, caro Nicolò, prima e dopo quella meravigliosa notte di Tirana. Perché tu, con noi, quella notte hai vinto per la Roma. E non sarà certo quella maglia sollevata al cielo dopo un gol, inutile, segnato con fortuna alla quattordicesima di andata a farci dimenticare quello che di meraviglioso è stato.
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