AS Roma

Tutto e niente da capire

Nell’agonia di Roma-Bologna, una partita con un destino già scritto. Nella distanza tra Juric e Hummels s’infilano Pisilli, Elsha e finanche Dahl. La situazione è seria

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
12 Novembre 2024 - 07:00

Hai presente quello lì, quello lì che non ti spieghi come sia possibile che si sia ridotto così, senza motivo, che prima aveva tutto e poi, improvvisamente, più niente? Ecco, noi oggi semo proprio quello lì, quello che te fa pena». Frase lapidaria, sentita mentre, a piedi, vado dal parcheggio ai tornelli, che sintetizza esattamente la situazione. Avevamo i sold out, le finali europee, DDR in nostra rappresentanza sulla panchina più importante del mondo. Poi, all’improvviso, il nostro “martedì nero”, in cui tutte le nostre quotazioni sono crollate. Sempre meno fiducia nella società («Io non ci credo più in questi americani»), nell’allenatore («Basta con Juric e con altri allenatori simili»), nella rosa («Chi viene viene, sempre con Celik a destra devi giocare»). I risultati che sono diventati via via lo specchio di circostanze grottesche («In Belgio ci siamo fatti segnare di testa da uno che era più basso, presi uno per uno, dei Sette Nani»). Gli arbitraggi che sono diventati paradossali («Il gol dato al Verona l’avrebbero annullato pure al Sei Nazioni»). Ma il problema non sta in questo crollo, tanto improvviso quanto verticale, ma nella causa che l’ha prodotto, e cioè noi. Cioè, noi noi proprio no. La Società, diciamo. E su questo sono tutti d’accordo («È colpa dei Friedkin»). Perché una cosa è la Società, la Proprietà, Trigoria. Altra è la squadra. Ma altra ancora, e va sottolineato, i tifosi. Che, in tutta questa vicenda, non è che siano gli ultimi ad avere responsabilità, semplicemente non ne hanno proprio. E quindi, prima ancora che inizi questo Roma-Bologna, in cui il sentimento prevalente è sperare che, una volta finita, riesca a non trovare traffico, perché di speranze, già alla lettura della formazione, ce ne sono ben poche, il disincanto che si è impossessato di tutta la Tevere lo tocchi con mano. 

Non vi è alcun dubbio che questa sia l’ultima di Juric. Sì, qualcuno prova a dire che dagli americani puoi aspettarti di tutto, anche che lo tengano, ma chi lo dice lo fa più per tenere vivo il contraddittorio che per una minima convinzione. È l’ultima di Juric, ed è talmente tanto l’ultima di Juric che la vicenda Dybala, il cui infortunio muscolare è stato provocato dalla conferenza stampa dell’allenatore e non da un contrasto in allenamento, che anche questa circostanza, e cioè che non si stato convocato il più forte del gruppo, passa ai margini. Perché la questione è un’altra, ed è più seria: ma siamo sicuri che gli americani abbiano compreso cosa significhi la Roma e come gestire una società calcistica che disputa la Serie A? Siamo sicuri che abbiano capito che qui c’è gente che tifa Roma, come suo padre e, ancora prima, suo nonno, e che nella vita ha avuto e perso ogni certezza ma mai quella nella fede per la Roma? Perché adesso, qui, il discorso si fa più alto. Gli applausi che senti per Pisilli, meritevole di elogio per avere rincorso un pallone che l’aveva capito chiunque che sarebbe comunque finito fuori, dà la misura del bisogno di trovare una luce, laggiù, nel buio, che ci permetta di individuare una via d’uscita. Che non può essere data dal risultato di oggi, a cui tutti danno comunque un’importanza relativa, ma da un segnale che ci faccia capire che questa stagione non sia finita ancora prima che arriviamo a metà novembre. Per questo, quando quella palletta, lasciata lì dentro l’aerea piccola orfana di portiere e difensori, entra, nessuno se ne meraviglia. Ci si arrabbia, si. Ma il giusto. Perché quella palletta conferma soltanto il momento, nulla di più. E non basta quell’incrocio preso da Soulé a riposizionarci in modalità entusiasmo. Non basta. Perché, poi, arriva l’intervallo e lì, in maniera plastica, l’addio di Juric e lo strappo tra lui e la squadra inizia a prendere chiaramente forma. Mentre tutta la squadra, panchinari compresi, sono nello spogliatoio, Hummels, lui solo, rimasto a palleggiare sul campo insieme a Ryan, si rivolge verso di noi e ci applaude. Lui a noi. E tanto basta per fare capire quanto sia la distanza tra Juric ed un altro Campione del Mondo. Ma niente ci viene risparmiato. Perché Juric, al suo passo d’addio, pensa bene di raccontarci la sua versione, e non porta in panchini Pellegrini, tanto c’è Eldor. Di più, lascia ancora una volta in panchina Hummels per fare entrare Dahl, che, semmai uno avesse avuto necessità di capire quanto avremmo bisogno che Angeliño giochi su quella fascia, Dahl ce lo fa capire. Niente Pellegrini, quindi. Niente Hummels. Dybala nemmeno convocato e raccontato a tutti come vittima di un infortunio che lui stesso non sapeva di avere subito. Ed Elsha, quello che dovrebbe fare il terzino, che (finalmente?) si ribella e si mette a giocare dove sa che c’è bisogno, e segna di testa come soltanto Roberto nostro. 

Ma il Bologna entra nella nostra difesa come il burro, utilizzando la stessa tattica di Fiorentina e Verona, e con gli stessi risultati. Ne segna quattro, per fortuna uno di mano, ma la sostanza non cambia. E non cambia nemmeno dopo che Elsha ne segna un altro dopo che ne aveva fatto prendere uno perché lui non è nato per fare il difensore, ma per giocare molto più avanti, e ieri l’ha spiegato con i fatti. E non basta quella palla che Eldor mette in mezzo, che poteva essere il pari. Non basta. Perché adesso la situazione si è fatta seria. E non mi riferisco allo spettro dell’altro campionato, che altri, e non noi, ben conoscono, anche se fanno finta di esserselo dimenticato, ma ad una squadra che deve riprendere a giocare avendo fiducia in quello che è chiamata a fare in campo; ad una squadra in cui i Campioni del Mondo le partite le giocano e non le guardano dalla panchina o dalla tribuna; ad una società in cui tutti i ruoli siano occupati; ad un allenatore che ci faccia sentire protetti e non che abbia bisogno, al contrario, della nostra protezione. La situazione si è fatta seria. La Tevere l’ha perfettamente capito. La domanda è se l’abbiano capito non solo a Trigoria, ma anche a Houston.

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