Il vuoto a rendere
La diffusa sensazione di stanchezza dei tifosi di fronte alla crisi attuale. Una strana vittoria, con l’inedito della gente che esce dallo stadio con il risultato in bilico
La sensazione, sostanzialmente mai provata, che uno non avesse voglia di andare allo Stadio è stata, in questi giorni complicati, via via crescente. («Io giovedì non vado. Mi dispiace, ma non vado»). Difatti, più passavano le ore e più si faceva spazio la stanchezza. Quella stanchezza tipica di chi si trovi a litigare sostanzialmente da solo. Talmente tanto da solo che, ad un certo punto, molla. Perché che stai a fare lì, ad urlare ai mulini a vento, senza un contraddittore, senza uno straccio di nessuno che, di fronte a te, provi a spiegarti che hai torto? Ad un certo punto te ne rendi conto, e lasci perdere.
Perché è inutile. E tutto sembra ineluttabile («È diventato inutile anche arrabbiarsi: non si fanno sentire»). Domenica sera, dopo la disfatta di Firenze, non era così. Tutti eravamo convinti che qualcosa accadesse, che la Proprietà desse un segnale, che si rendesse conto che, dai e dai, forse l’hai capito che ci vuole qualcuno di peso che parli a nome di tutti («Adesso prendono Ranieri come portavoce, che parla sia l’inglese che il romano»), un amministratore che sappia la differenza tra un centravanti ed un terzino («Spero tanto Antonello dell’Inter, che è bravo e lavora in silenzio»), un allenatore che non si metta contro la squadra e che mantenga calda la passione dei tifosi («Devono far tornare Daniele, oppure prendere uno di peso. Ma non si può andare avanti così»). Invece, niente. Il nulla.
E sì che tutti immaginavamo che sarebbe andata diversamente. Aspettavamo Firenze come l’ennesimo snodo. Se si vince, si va avanti; se si perde, si cambia («Vedrai che succede se perdiamo a Firenze»). Invece, il niente assoluto. Non è bastata una sconfitta tra le più cocenti, in cui tra Svilar e quelli della Fiorentina che arrivavano non c’era nessuno. Non è bastato vedere Bove fare tutto meravigliosamente bene, come tutti, nessuno escluso, avevano ampiamente previsto che fosse, perché Bove non è un “prospetto”, non è una “scommessa”, ma un giocatore fatto e non ancora finito, se è vero che Mou l’ha fatto giocare quando era ancora un bambino, e forse qualche motivo ci sarà stato.
Non è bastato tutto questo. Intorno a noi, soli ad urlare nel silenzio, il nulla. Abbiamo scoperto soltanto dopo un paio di giorni che la fiducia della Società fosse ancora in Juric («Questi non cambiano. Incomprensibile»). Quella della Società, appunto. Ma non la nostra. E non quella della Squadra, perché se uno ha visto la partita di Firenze l’ha capito che i giocatori non ci credono in quello schema. Ma non è bastato.
Abbiamo parlato a vuoto. Abbiamo sofferto, ma è sembrato come se qualcuno volesse farci capire che la Roma non sia una questione nostra. Ma il punto, invece, è proprio questo, è che la Roma siamo noi. Ed anche se qualcuno non va allo Stadio, non è che non ci va per noncuranza, ma per troppo amore.
È così, quindi, è con queste sensazioni che abbiamo salito le scale della Tevere, per assistere, nel primo tempo, a tre eventi. Il primo, che la Sud non ha fischiato, ma ha cantato ed incitato. Sembra l’ovvio, ma non lo è. Quella scelta è importante, perché dà la misura delle difficoltà che viviamo («È l’umiliazione più grande per i giocatori: tifiamo perché, da soli, non ce la fareste»). E la Roma adesso va presa per mano, non contestata, anche se tu non hai idea di quanta voglia ci sarebbe. La Sud, quella squadra, se l’è caricata sulle spalle, e l’ha fischiata soltanto a fine partita. Ed erano, quelli, tutti i fischi che non sono arrivati, domenica scorsa, fino a Firenze, e che erano rimasti qui, inespressi, per essere recapitati al momento opportuno. Il secondo, che una bambina si è persa sulle scale della Tevere ed è stata prontamente riportata al padre da due giovani tifosi che hanno voltato le spalle al campo per rintracciare il genitore. E quella scelta, cioè quella di occuparsi del ritrovamento del padre scomparso, alternativa a quella di continuare a guardare una partita in cui si giocava (giocava?) un calcio stanco, è stata ritenuta dai più comunque totalmente azzeccata («Dovevo alzarmi io, almeno mi evitavo dieci minuti di questo nulla»). Il terzo, il gol di Dybala, il primo su azione quest’anno, che ha fatto una di quelle giocate che ancora ti domandi, in questo deserto, perché avremmo dovuti essere contenti se fosse andato in Arabia su per giù per gli stessi soldi per i quali da noi è arrivato Saud.
Ma il vero evento, quello che dà la cifra definitiva del momento che stiamo vivendo, doveva accadere durante il secondo tempo. Intorno al settantesimo, difatti, le scale della Tevere hanno iniziato ad essere transitate, verso l’uscita, da un numero di tifosi via via crescente. Ora, chi vi scrive frequenta quegli spalti, diciamo con una certa assiduità, da circa sessant’anni. Per dare un’idea, dai tempi in cui, seduto in Tribuna dalla parte della Sud, e non avendo ancora compreso il senso della prospettiva, chiedevo a mio padre la ragione per cui una porta fosse più grande dell’altra. Insomma, per farla breve, per me che frequento lo Stadio da sempre, quelle scale di tifosi che se ne vanno, quando ancora mancano più di venti minuti alla fine, ha sempre voluto dire due cose: o la Roma sta vincendo quattro a zero o la Roma sta perdendo quattro a zero.
Ma che la gente se ne vada, così, quando la Roma sta vincendo soltanto per uno a zero una partita peraltro decisiva per il prosieguo della stagione, vuol dire soltanto una cosa: che ci siamo stufati di tutto questo. Ci siamo stufati di questo silenzio assordante («Mi hanno tolto l’entusiasmo»). Ci siamo stufati di essere passati da Mou, che ci faceva sentire vivi, entusiasti e forti, e che ci ha portato a Tirana ed a Budapest («Adesso ci si rende conto di cosa volesse dire Mourinho»), di essere passati da DDR, che ci faceva sentire un corpo solo con la squadra («Con Daniele allenavamo anche noi»), ad una Roma in cui la Proprietà non si sente, non ti parla, non si vede («Ma esistono?»), ed in cui la squadra deve guardarsi dal terz’ultimo posto e non ambire al terzo («Che ha fatto ieri il Venezia?»). Ci siamo stancati. E non basterà una meravigliosa veronica di Paulo a farci tornare l’entusiasmo. Perché quelli che mancano non sono (soltanto) i gol, ma i progetti. E forse è arrivato il momento che ne prenda coscienza non soltanto la Tevere. Che qualcuno, che parla bene inglese, lo spieghi.
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