AS Roma

Il cassetto dei sogni

Da un lato la gioia del 3-0 di domenica e del ritorno nel palcoscenico europeo, dall’altro quasi un senso di colpa nei confronti di De Rossi nello sperare in una vittoria

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
28 Settembre 2024 - 06:30

Le più gettonate, mentre arrivo, sono “verticale” e “pressione” (“Mi piace perché sta squadra gioca sempre la palla in verticale”; “una pressione così appena perdi palla non l’ho mai vista”). Qualcuno azzarda anche un “uno contro uno” (“Difendiamo sempre uno contro uno; prima non era così”). Ma “verticale” e “pressione” vincono a mani bassi. La sensazione è che vi sia una sottile paura, al termine di questa partita che ancora deve iniziare, di ritrovarsi soddisfatti per il gioco e per il risultato e di correre il rischio, a quel punto, di riaprire il cassetto dei sogni (“Se vinciamo oggi … vabbè, nun me fa dì gnente…”). Il mood, difatti, è contrastante. Da un lato, siamo ancora, tutti, nel ruolo dei tifosi delusi ed arrabbiati, che stanno lì a contestare ed a guardare una stagione che dovrebbe sfilare via senza una gioia (“Io ancora non mi capacito”). 

Dall’altro, quanto visto contro l’Udinese, valutato il possibile valore della nostra rosa, colpiti positivamente da uno Juric tutto campo e lavoro, considerata la circostanza che siamo ancora a settembre e che ancora tutto sia possibile, la voglia di riaccorparci e riniziare, con entusiasmo ed uniti, il cammino bruscamente interrotto in quella spietata semifinale tedesca, c’è tutta (“Guarda che il lavoro di Juric già si vede, ed è un gran lavoro”). E questo crea un sottaciuto senso di colpa, soprattutto nei confronti di DDR, quasi che, a riprendere a vincere, fossimo colpevoli di tradimento nei confronti di Daniele nostro. E la dimostrazione plastica di questa sensazione dicotomica la viviamo al sedicesimo del primo tempo, nel momento in cui la Sud si sveglia dal suo silenzio e Lina, quei giorni in cui ci siamo sentiti orfani, Romelu che se ne va senza che noi ci si azzardi a dire una sola parola, coscienti dell’impossibilità che possa restare, sembrano finalmente alle spalle. E quando, poi, dopo un inizio sottotono, improvvisamente il gioco diventa “verticale” e, quando perdiamo palla, andiamo subito a riprendercela, nella loro metà campo, applicando una “pressione” costante, spesso “uno contro uno”, lì, in quel preciso momento, il cassetto dei sogni inizia veramente a riaprirsi (“Mai vista una Roma così”). 

E quando, poi, a valle di un’azione in cui tutti fanno la cosa giusta – Dybala inventa; Konè dimostra uno strapotere fisico; Baldanzi prende quella palla e, come un folletto, la fa arrivare dall’altra parte del campo; Angelino, ringraziato Baldanzi, fa un cross perfettamente calibrato; il Pichichi la impatta di testa, dopo un perfetto smarcamento, facendo sembrare facile un gesto difficile – passiamo in vantaggio, quel cassetto si spalanca del tutto (“Sembra il Brasile contro ‘na Primavera …”). Ed è allora che iniziano ad alzarsi le prime voci, primo in tono sommesso, poi sempre più deciso, che ti dicono che era proprio di uno come Juric che avessimo bisogno (“Quanto ce capisce!”), che questo è il gioco adatto a questa rosa (“Così devono giocare”), che il Pichichi non sarà ancora Lukaku ma ne riparliamo a maggio (“Fortissimo: vedrai quanti ne farà da qui a fine stagione”). 
E che non si arrivi all’intervallo con due gol di vantaggio ci appare più come una dimenticanza, a cui poter porre rimedio nel secondo tempo, che come un segnale di pericolo. Ed a quel punto, quanto accaduto nemmeno dieci giorni fa inizia a sembrarci passato remoto quando si riparte, difatti, Soulè, mangiandosi un gol che sembrava fatto, ci illude che di Dybala si possa fare ogni tanto anche a meno (“Lo segna tra poco, nessun problema”), evidentemente facendoci dimenticare, per un attimo, di cosa fosse stato capace Dybala nel primo tempo. Ma passano pochi minuti e sembra che quello che avrebbe dovuto essere passato remoto sia, invece, un passato più che prossimo, addirittura un passato a cui dare un nome ed un cognome: Genoa – Roma. 

Perché, esattamente come in quella maledetta partita, in cui, nel primo tempo, per buona parte sembravamo giocare a calcio come non mai, nel secondo tempo veniamo schiacciati nella nostra metà campo, senza più avere, così come a Genova, la forza e le idee per uscirne (“Me sembra de sta seduto a Marassi …”). Ed allora il cassetto inizia inesorabilmente a richiudersi, perché davanti non hai una squadra di Prima Categoria, ma una squadra spagnola (rectius, basca) che ha dei giocatori meravigliosi. Ed anche se Svilar non viene particolarmente impensierito, lo sai che, dai e dai, il pallone prima o poi entrerà. 
Ma il problema vero è che ci si rende conto che la squadra del primo tempo non è quella del secondo. Che Soulè non è (ancora) Dybala; che Konè non dovrebbe uscire mai; che il Pichichi speriamo abbia lunga vita in questa stagione; che, soprattutto, se arrivi a rimpiangere anche Celik, su quella fascia non stiamo messi proprio benissimo. Perché va bene applaudire, come un solo uomo, l’ingresso in campo di Saud. Ma vederlo, poi, così spaesato, preoccupato più di fare bene la prima cosa che è chiamato a fare per, poi, dimenticarsi di darvi un seguito e creando così scompiglio, ha dato a molti la sensazione che per la prima volta Juric, fin qui concreto e lucido, abbia ragionato più con il cuore che con la testa (la sola riportabile, a fine partita, è: “Ha voluto premiare il ragazzo, che ha dimostrato, però, di non essere ancora pronto. Semmai lo sarà…”). 

E quando, su una palla da fermo, in cui due di loro fanno tutto quello che c’è da fare, mentre quattro di noi non riescono mai a strusciare il pallone, vediamo sfumare la vittoria, come a Genova, proprio all’ultimo, quello che sembrava il reparto che avrebbe dovuto darci le maggiori garanzie ci appare, viceversa, come un reparto stanco e privo di risorse (“Li doveva cambiare prima”). Perché è chiaro a tutti che se Soulè avesse segnato, lì dove ci sarebbe stato solo da segnare, tutto sarebbe stato più facile. Ma è altrettanto chiaro che, quando in campo avevi, oltre Mancini, anche Ibanez e Smalling, quei palloni non entravano (“Ti ricordi cos’era la difesa con loro tre?”). E questa volta, invece, è entrato. Ed allora usciamo con quelle facce un po’ così, di quelle che ti dicono che qualcuno stia lì già a fare le tabelle (“Dobbiamo capire dove andare a recuperare questi due punti persi”), altre dei primi processi che vedono imputata la difesa (“Hermoso sono due volte che non la prende, e caro c’è costato”), altre che ti trasferiscono il rimpianto dei tempi in cui avevi Alda, Zago e Samuel (“Quelli non li passavi mai”). Per fortuna che domenica prossima arriva subito. Ne abbiamo davvero bisogno.

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