Un corpo unico malgrado tutto
La notte di coppa lascia orgoglio più che delusione: siamo vivi
Accolta. Accarezzata. Cullata. Mentre gli occhi poco a poco si sgranavano e i mattepareche lasciavano spazio prima a stupore, poi a convinzione e orgoglio, la nostra Venticinquesima ora è stata lì, a portata. E anche per noi «c’è mancato poco che non succedesse mai». Stavolta però non è soltanto la spietata conclusione già vista di molte delle nostre rimonte incompiute. Stavolta è un triplo salto temporale fra quello che eravamo, quello che siamo diventati e quello che siamo destinati a essere. Come un viaggio onirico che può compiere soltanto chi è incline all’iperbole, sgombro da pensieri perché ne ha fin troppi per la testa: il miraggio di Dublino, l’impresa prossima al miracolo contro la squadra più imbattibile del globo, ma anche l’Atalanta dietro l’angolo e questa rincorsa infinita che è vicina e lontanissima dal completarsi. Inferno e paradiso si sfiorano, si toccano perfino, scambiandosi l’occhiolino in un cinico tira e molla del quale è proprio la Roma l’oggetto. Presa in mezzo, in un finale di stagione che «poesse fero e poesse piuma» nel giro di 72 ore.
Eppure non c’è disillusione, né incazzatura nell’aria. Ci sono enormi grazie che aleggiano verso un gruppo di combattenti veri, in grado di andare ancora una volta molto oltre quello che chiunque (ma proprio chiunque) avrebbe pronosticato alla fine del girone. O anche prima. O dopo. La maledizione dei rigori sovvertita confermando la benedizione del Feyenoord, il Brighton annichilito, il Milan ridotto ad allievo da una solenne doppia lectio magistralis di calcio. Un percorso da applausi. Di più: da abbracci. Perché questo gruppo pare davvero un corpo unico e gli si vuole bene. Ne abbiamo visti tanti e ci siamo tuffati dentro un po’ tutti metaforicamente. Sotto la Sud; nella morsa fraterna di DDR; nella grinta di Paredes; negli occhi lucidi di Lukaku; in quel cuore disegnato da Svilar e Rui allacciati, altro che rivali.
Ritrovi tutto in quegli sguardi fieri, in quei volti storditi dal campo agli spalti, ma nessuno più preda di scoramento. La sconfinata letteratura sulla mistica della sconfitta esercita ancora il suo fascino, ma non siamo più gli Ettore, i Leonida o i Toro Seduto. Non più quelli che annusano il profumo del traguardo epico, ma consapevoli di esserne depredati proprio a un attimo dall’assaporarlo. Siamo invece quelli che ci arrivano, che lottano, che sovvertono pronostici, che fanno tremare i pilastri del mondo anche quando il destino si accanisce a fare sgambetti. Siamo quelli che ritrovano la voce quando non c’è più, la corsa e l’ardore agonistico quando ogni riserva sembra prosciugata. E ancora la reazione alle corde da grande squadra, la voglia di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Perché se «c’è mancato poco che non succedesse mai», manca pochissimo, un niente proprio, che succeda davvero. Ed è a portata di mano. Perciò l’orgoglio prevale sulla delusione. E oggi siamo fieri. Vivi. Romanisti.
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