La notte per scrivere il futuro
A Leverkusen tutto è ancora in gioco. Cinque motivi (più uno) per credere alla qualificazione
Non è finita finché non è finita. L’assunto sarà anche banale, ma negarlo svilisce il senso profondo di ogni competizione. Di più: il fascino della sfida impossibile lo rilancia e lo sublima. E la Roma di pagine in tema ne ha scritte eccome. Anche a caratteri cubitali. La sfida in casa del Leverkusen rientra nel novero, eppure motivi per crederci ce ne sono. Perfino razionali, al di là della carica emotiva da tifosi.
Si parte dal dna di questa squadra: europea per vocazione, se non da sempre almeno da sette stagioni a questa parte. Cinque semifinali centrate nel periodo, quattro consecutive sfociate in due finali: tutti sintomi di una crescita innegabile e di una consapevolezza che ha portato i giallorossi a compiere imprese che in pochi avrebbero immaginato. Il doppio successo senza discussioni sul Milan (con la seconda gara giocata quasi interamente in inferiorità numerica) è soltanto l’ultimo esempio in ordine temporale. Non certo l’unico, passando dalla goleada sul Brighton, al Chelsea di Conte asfaltato all’Olimpico e doppiamente rimontato a Stamford Bridge; dal Feyenoord raggiunto last minute e poi tritato nell’extra-time, alla storia capovolta nei rigori ancora con gli olandesi; dall’epica rimonta sul Barcellona, al tripudio di Tirana.
La predisposizione nelle coppe è anche figlia di un carattere più forte di quanto venga raccontato. Questo gruppo ha dimostrato di essere capace di superare i propri limiti, cui ha saputo sopperire proprio con la voglia di saper reagire alle avversità. La colossale ingiustizia di un anno fa a Budapest ancora grida vendetta e può fungere da ulteriore stimolo ora che l’occasione è lì, non proprio a portata dopo lo 0-2 dell’andata, ma pur sempre a una sola partita di distanza.
Dall’altro lato c’è una squadra che definire in salute è fare esercizio di puro eufemismo: imbattuta da un anno, ha letteralmente annichilito ogni avversaria in Bundesliga, demolendo tutti i record. Ma il trionfo in patria è un inedito assoluto e fino a questa stagione il Bayer è stato sinonimo di eterno secondo, club in grado di accarezzare titoli senza mai farli propri. Anche in Europa, dove il blasone nemmeno si avvicina a quello delle altre big tedesche ed è di gran lunga inferiore a quello romanista. La stessa BayArena - funzionale, moderna, esteticamente gradevole - presenta atmosfere lontanissime dai catini infernali di Dortmund e Francoforte. Quello ambientale può essere anzi un fattore a vantaggio di Pellegrini e compagni, grazie al supporto dei romanisti che lì hanno spadroneggiato nell’ultima semifinale.
Poi c’è l’aspetto tecnico: sulla carta gli uomini di Xabi Alonso sono più attrezzati, ma la partita d’andata è stata indirizzata da due macroscopici errori individuali, quello che ha causato lo 0-1, come quello che non ha dimezzato il punteggio nel recupero. Sul piano del gioco la Roma si è mostrata per larghi tratti in grado di potersela giocare (soprattutto fino al gol che ha sbloccato il match) e oggi può avere gli strumenti per correggere il tiro rispetto all’Olimpico.
Fin qui gli aspetti tangibili. Cui però bisogna aggiungere l’evoluzione del romanismo. Inteso come corpo unico: squadra, società, tifoseria. Non più preda dei fatalismi infausti. Come se (troppo) a lungo essere romanista avesse comportato una sofferenza intrinseca, un destino ineluttabile. Un insostenibile epos nel quale un sadico sarto ci cuciva addosso sempre lo stesso vestito: quello dell’eroe valoroso che va incontro a un epilogo già segnato e sempre maledettamente tragico. Ora c’è consapevolezza della propria forza. E si può credere che nulla finisce finché non è effettivamente finito.
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