La missione di De Rossi: vincere il fatalismo
Bisogna liberarsi di quel pessimismo cosmico tipicamente romanista, un «esercizio deviato» che rischia di portare fuori strada la macchina giallorossa
«Una volta ho parlato un po’ del nostro fatalismo a Roma. ‘Va sempre male, tanto la prossima perdiamo. Abbiamo vinto oggi, ma perderemo la prossima’. E mi sono reso conto che anche io facevo lo stesso esercizio un po’ deviato con me stesso». Queste sono le parole che De Rossi proferiva alla vigilia del primo round europeo tra Roma e Milan. Il tecnico, facendo riferimento alla sua seconda vita calcistica, continuava poi spiegando che non si può non prendere coscienza del ruolo funzionale che i fallimenti ricoprono nel percorso di crescita di ognuno. E infatti, “capitan futuro” si è trasformato, con tutte le differenze professionali del caso, in “allenator presente”. Non più una promessa per i romanisti, ma una realtà alla quale aggrapparsi in questo preciso momento della storia del club.
È chiaro come quelle parole non celassero un elogio al mantra del «ciò che conta è partecipare, non vincere». Un campione del mondo come lui sa benissimo l’importanza del traguardo finale. A essere incriminata, se così si può dire, è invece la tendenza tutta romanista al pessimismo. Già adesso, nel periodo cruciale per il futuro giallorosso, aleggia lo spettro della catastrofe, ridendo in faccia a chiunque guardi il calendario: dalla semifinale di Europa League contro l’apparentemente imbattibile Leverkusen di Xabi Alonso, al micidiale filone di scontri diretti – oggi il primo, in un Olimpico che ospiterà il Bologna dei miracoli – con quelle che sono pronte a tutto pur di prendersi il piazzamento attualmente occupato dalla lupa.
Perché la Roma non dovrebbe farcela? Si fa presto a dirlo: i rigori di Coppa Campioni dell’84, il mancato scudetto dell’86, la Coppa Uefa del ’91. E come dimenticare quel Roma-Slavia Praga del ’96, il pareggio a Venezia nel 2002 o la doppietta di Pazzini che costò il titolo nazionale nel 2010. Per non parlare poi dei traumi del 26 e del 31 maggio. Per la coscienza collettiva la storia romanista è tutta un guardare ma non toccare, un toccare ma non portare a casa. In effetti, il romanismo per come lo conosciamo tutti si è costituito anche in forza a una quantità (non) invidiabile di sfortune, spesso occorse in momenti chiave del cammino della Roma verso la grandezza. Sempre con le stesse dinamiche, le stesse contraddizioni, gli stessi rimorsi, gli stessi errori. Ma pensare che anche stavolta si fallirà è decisamente malsano. Si tratta di una convinzione poco utile, a maggior ragione dopo la doppia vittoria contro un Milan che, secondo chiunque, si sarebbe facilmente portato a casa la qualificazione. E invece, i 180 minuti più recupero hanno raccontato tutt’altra fiaba.
Restando ancorati al presente e senza tirare in ballo la Conference vinta appena due anni fa, i numeri di questa seconda parte di stagione dovrebbero incoraggiare: da quando De Rossi ha preso il timone della squadra, tra campionato e coppa si contano 12 vittorie, 3 pareggi e 2 sconfitte. Sedicesimi, ottavi e quarti di finale sono stati superati estromettendo Feyenoord, Brighton e Milan con prestazioni di assoluto livello. Contestualmente, il derby è stato vinto e la corsa Champions tenuta viva. Eppure, il solito fatalismo è tangibile. «Purtroppo il Leverkusen è troppo forte», si legge sul web e si ode nei bar. «L’anno scorso ci è andata bene, ma stavolta passano loro». C’è poi il sentore che non sia possibile sopravvivere alla serie Bologna – Napoli – Juventus – Atalanta. Senza contare i 18 minuti da recuperare contro un'Udinese disperatamente affamata di punti salvezza e con una nuova guida tecnica.
Tenendo a mente i timori dell’ambiente, bisogna ricordare che in questa città si passa con leggerezza dalle stelle alle stalle, e viceversa, nel giro di una partita, anche quando nulla è perduto e nulla è ottenuto. C’è il rischio, se non addirittura la sicurezza, che possa andare così anche stavolta. Per questo De Rossi sa come ora più che mai la casa vada protetta dalle destabilizzazioni esterne e dalle trappole psicologiche del romanismo che, per la felicità di molti, bussano puntuali al campanello quando il gioco si fa duro. A maggior ragione quando la Lega – a differenza di quanto accade in altre realtà, vedasi la Francia – mette i bastoni fra le ruote, dimostrando (non che ce ne fosse il bisogno) tutta la propria irriconoscenza per il lavoro determinante svolto in Europa dalla Roma negli ultimi quattro anni. Un lavoro che, passando per due finali e due semifinali, ha portato una montagna di punti al ranking nazionale, garantendo il primato all’Italia e la partecipazione di più squadre nostrane alla Champions e alle altre competizioni europee.
Sì, allenator presente l’aveva detto e lo ha ribadito ieri: basta piangersi addosso, basta causarsi quell’«effetto Florida» per cui si finisce per credere di essere deboli e sfigati soltanto perché è ciò che ci si ripete in testa. Che vengano pure le ingiustizie del sistema e le ipocrisie di chi lo domina, faranno da legna utile a vivificare il fuoco giallorosso che, a partire da quel turbolento 16 gennaio 2024, sta divampando, sempre più forte e irrefrenabile. Ovvio, la regola evergreen del pensare partita dopo partita va tutelata con tutti gli sforzi del caso. Ma al contempo è necessaria la consapevolezza che, allo stato attuale, la Roma non è inferiore ai suoi avversari. «Anche loro non sono felici di incontrarci», no? Di ciò, a prescindere da come finirà, qualcuno si deve convincere. L’esercizio deviato va messo da parte, le energie riversate nella battaglia sul campo. Tutto è nelle mani di chi partecipa a questo gioco e così deve essere, perché altrimenti è meglio non giocare. La regola fondamentale? Vincere il fatalismo. Una volta per tutte, contro tutto e tutti.
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