Con la testa altrove
All’Olimpico la Roma ha vinto una gara complessa con la magia di Pellegrini. In Tribuna però il problema non sembra essere la corsa Champions, ma andare fino a Dublino
«Rimembranze di Doumbia…». In queste tre parole, rivolte da un tifoso, seduto davanti a me, alla fidanzata, c’è la sintesi perfetta di quello che abbiamo vissuto e, soprattutto, avvertito prima e durante questa partita. Perché quella frase, pronunciata allo scadere del primo tempo, a commento del colpo di testa che Lukaku ha mandato lì dove non doveva andare, dice tutto. Perché ci parla del timore di essere ricaduti nell’illusione, ci parla della poca attenzione, da parte di tutti, a questa partita, ci parla di come il pensiero fosse altrove. E sì. Perché, per capire le ragioni di quel richiamo al mitologico Doumbia, uno dei tanti che sapeva giocare benissimo ma che, una volta entrato nel Raccordo, ne ha perso memoria, dobbiamo interrogarci, tutti, nessuno escluso, di quello che stiamo vivendo da venerdì scorso. Perché lì inizia la paura. La paura di non farcela. La paura che di sogno si tratti.
Ne avevo la sensazione, nitida, prima di entrare. Ai tornelli non si parlava di Aouar o del ritorno di Tammy in panchina. No, non si parlava di questo. Si parlava dell’11 aprile e, soprattutto, del 18 («Dobbiamo almeno pareggiare a San Siro e giocarcela al ritorno. Hai preso i biglietti? No, dico pure per Milano»). Perché, ed è inutile girarci intorno, dopo un anno che ne parliamo («Me la sogno da un secondo dopo che quello ha segnato l’ultimo rigore»), finalmente, lungo questo interminabile viaggio, venerdì scorso, per la prima volta, ci è apparsa l’insegna con l’indicazione “Dublino”. Perché ora sta lì, quasi la vedi. Manca poco. Ti hanno indicato chiaramente l’ultimo tratto di strada che c’è da fare. Ma la verità, e questo è chiaro a tutti, che quel poco che manca è la parte più difficile del percorso. Mancano quattro partite quasi impossibili. E, poi, semmai ci arrivi, ti ritrovi lì quelli là («Ma come se fa? Dovresti batte il Milan, i tedeschi e il Liverpool in finale. Impossibile»). Ed è con questa sensazione che siamo entrati in Tevere. Con la sensazione che abbiamo fatto tutto bene. Che ci siamo quasi. Ma che davanti abbiamo troppi ostacoli, e tutti troppo complicati. La testa, quindi, non era al Sassuolo. Non era al quarto posto, o al quinto, semmai fosse. No. La testa era a quel traguardo. Che lo vogliamo. Perché sarebbe la chiusura di un cerchio e l’apertura di un nuovo corso («Tu pensa: Daniele vince subito»; «Tre finali de seguito, due vinte. Entri in Champions dalla porta principale. E poi falli parlà»). Per questo la partita è iniziata che sembrava che, a partire dalla Curva, stessimo tutti con la testa altrove. Noi, in tribuna. Loro, sul campo. Tutti altrove. E questa sensazione alimentava un circolo vizioso, quasi a volere dimostrare a noi stessi che, diventata troppo complicata quella finale, siamo ritornati ad essere la Roma bella ma sfortunata, la Roma che «se l’arbitro» o «se il palo», la Roma che «l’anno prossimo qualcosa se vince». La Roma delle speranze andate deluse. In poche parole, la Roma dei Doumbia. Ed è per questo che quella frase, pronunciata come una sentenza quando Romelu, non uno qualsiasi, la spizzava come se avesse dimenticato i fondamentali del colpo di testa («Nun la poi spizzà così, senza convinzione, a un metro dalla porta»), arrivava a colpire il nostro nervo scoperto.
Perché noi vogliamo vincere. Ma non l’anno prossimo. Adesso. E vogliamo andare a Dublino. O meglio: dopo venerdì vorremmo andare a Dublino. Che quasi la tocchiamo con mano. Ma, da qui in avanti, è davvero tutta in salita («Milan, Bayer e Liverpool… ‘na passeggiata. Mejo non dà retta a sogni»). Ed è questo bagno di realtà che ci ha portati a fare il pienone allo Stadio, ma a guardarci intorno come se avessimo appena scoperto che Babbo Natale non esiste. E, quindi, niente regali sotto l’albero. Poi, però, succedevano un paio di cose. Anzi, tre.
Pellegrini che, da Capitano vero, ci svegliava tutti dal torpore e ci riportava, lui sì, alla nostra meravigliosa realtà, quella fatta di un filotto di due mesi praticamente di sole vittorie («Con DDR è rinato»); Svilar che dimostrava che a Trigoria nello scoprire i talenti che giocano in porta ci sanno fare, anche se gli serve un po’ di tempo per accorgersene («Come Allison: mesi e mesi ‘n panchina prima de scoprì che è ‘n fenomeno»); che la sfortuna è sempre lì in agguato, perché se entra quel pallone è il più maldestro degli autogol, ma che poi ci sono una gamba, un palo ed un avversario che la tira sulla Cassia a darci degli ottimi segnali di speranza. E a quel punto, ma solo a quel punto, si torna a parlare del Bologna, che vince in quell’ultimo minuto in cui, se quello dell’Empoli non sbaglia il lancio, magari perde («Poteva perde. Ma quello s’è suicidato con quel pallone sprecato»); dell’Atalanta, che è un avversario un po’ temibile, ma solo per il campionato e poi, tutto sommato, mica così tanto («In Coppa non vanno avanti. In campionato, sì, te ponno dà un po’ fastidio, ma niente de che»); del Napoli, che, quest’anno, non va da nessuna parte («Il Napoli è fuori dai giochi»); della Fiorentina, che la testa ce l’ha tutta sulla Conference («Vincela è importante»); su quegli altri, che forse non otterranno, quest’anno, particolari risultati, ma che sembra che vivano nel nostro riflesso («J’è rimasto solo er derby. E poi, hai visto? Noi pijamo Mourinho, e loro subito dopo pijano Sarri. Noi mandamo via Mourinhno, e loro subito mannano via Sarri. Sembra che ce copiano»).
Ma il problema non è il Bologna, l’Atalanta, il Napoli, la Lazio o la Fiorentina. Il problema è un altro. Il problema è Dublino. Ed è proprio quello che non ci fa dormire la notte.
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