Le anime belle forgiate da De Rossi l’inventore
L’allenatore fornisce sempre nuovi spunti nella strategia, ma il segreto della squadra è l’alchimia tra giocatori. Nel nome della LuPa
In una serata piena di cose come quella vissuta giovedì allo stadio Olimpico non è facile riavvolgere il nastro e metterle tutte in fila secondo un ordine gerarchico di importanza per la loro valenza tattica. Anche perché in una partita così sono talmente tanti i fattori che hanno determinato il risultato da non poter scindere un aspetto dall’altro. Bisogna, per esempio, per prima cosa sottolineare come abbia funzionato nel suo insieme la Roma intesa come gruppo di anime belle. Può sembrare una stupidaggine, ma se le cose funzionano così bene il punto di partenza non può che essere quello. Dopodiché ci si può concentrare sul campo e sulla prima necessità tattica di ogni partita della Roma di De Rossi: proteggere l’equilibrio della squadra senza chiedere a Dybala compiti particolarmente gravosi nella fase di non possesso. Alambicco non facile se il sistema di gioco è il 433 e la funzione difensiva da coprire è quella di uno dei due esterni alti. Nel calcio moderno nessuno può ormai più permettersi di difendere esentando dalla fase di non possesso un giocatore, soprattutto un esterno alto. Se giochi col 433, è quasi fisiologico che i due attaccanti esterni nella prima impostazione avversaria si abbassino a seguire i terzini per evitare di lasciare in inferiorità numerica i compagni di squadra dislocati geograficamente più in basso sul campo. Nello schieramento di molti teorici del 433, ad esempio, le mezzali si alzano sui centrali, ma gli attaccanti seguono i terzini, altrimenti si perde d’equilibrio.
Lo slittamento per Dybala
La soluzione individuata stavolta da De Rossi per non costringere la Joya a quelle sfiancanti rincorse è stata, come a Rotterdam, quella di lasciare il compito di coprire semplicemente la prima impostazione del difensore centrale, affiancando il centravanti nel compito. Destinando dunque Dybala e Lukaku alla marcatura nel primo possesso dei due centrali di difesa restavano sostanzialmente due possibilità per non doversi abbassare senza pressioni: decentrare sul terzino avversario la mezzala di zona attivando dei meccanismi di copertura a scalare in mezzo al campo per non perdere la parità numerica, proprio come fatto all’andata con Bove a sdoppiarsi tra terzino e mediano avversari, o alzare altissimo il proprio terzino, ruotando dietro i difensori centrali e facendone aprire uno sull’attaccante esterno di zona palla: stavolta è stata questa la scelta di De Rossi. Ecco perché ha preferito far giocare Llorente sul centrodestra (era lui a doversi spostare su Paixao) per lasciare a Mancini il compito di tenere Gimenez, il più pericoloso tra gli attaccanti di Slot. Da lì è disceso anche il sacrificio di Paredes su Stengs. Poi succede però che in caso di uscita in pressione anticipata o non sufficientemente ragionata, si apra un buco proprio nel settore in cui si è apportata la novità. È successo a Rotterdam e si è ripetuto l’altra sera ad inizio partita: Hartman s’è preso lo spazio concesso e da lì ha fatto partire il cross da cui è nata la carambola che ha portato Gimenez a realizzare la prima rete della serata.
Le marcature a uomo
L’altra questione molto evidente della fase di non possesso romanista è stata che puntando molto sulle pressioni offensive inevitabilmente il resto della squadra finisce per ingaggiare duelli individuali in ogni zona del campo con il risultato che la difesa lavora sulle marcature a uomo tipo l’Atalanta, e il lavoro difensivo è molto condizionato dal movimento degli avversari. Questo porta ad uno sforzo fisico non indifferente ma che esalta alla fine le qualità agonistiche di giocatori come Mancini, Llorente e persino Paredes, non a caso diventato uno dei simboli della rinascita della Roma sotto il segno di De Rossi. Leandro, esattamente come Lorenzo Pellegrini, ha risentito con particolare beneficio della nuova impostazione tattica che, invece, in fase di possesso prevede fraseggi corti al massimo a due tocchi, cambi di gioco sugli esterni e attacco improvviso e rapido in verticale della zona scoperta della difesa avversaria, magari dopo aver costruito dalla parte opposta. Un meccanismo persino facile da insegnare a giocatori tanto dotati tecnicamente. Il risultato finale è che la Roma è diventata una squadra che crea tante occasioni da rete, che si getta all’attacco con inedita generosità, che porta tanti giocatori oltre la linea del pallone all’attacco dell’area avversaria e di conseguenza concede qualche occasione di troppo che un giorno o l’altro rischierà di portare i commentatori più superficiali all’inevitabile considerazione sull’eccessiva leggerezza della difesa: hanno già cominciato a scriverlo, in maniera preventiva. Magari gli stessi che avevano a cuore le sorti di Mourinho prima che quelle della Roma. Ma il giochino è ormai scoperto.
L’importanza della LuPa
Della serata dell’Olimpico, però, ci sono tanti altri aspetti che vanno esaltati, dalle capacità tecniche del nuovo portiere titolare alla partecipazione morale dei panchinari, Rui Patricio su tutti, come più volte sottolineato da De Rossi nelle interviste post partita. Si potrebbero analizzare le differenze persino nella qualità dei rigori tirati, facendo magari un parallelo con la disastrosa esibizione di Budapest nella finale di Europa League per apprezzare la precisione dei cecchini di giovedì sera. Di sicuro col Siviglia mancarono tanti tiratori mentre l’altra sera Ddr ha confessato di averne in abbondanza. Certo, può preoccupare l’involuzione di Lukaku, per una partita senza grandi squilli (se non il quasi gol al 120º minuto), per la scarsa capacità di incidere in una partita tanto importante, persino nel rigore sbagliato che per fortuna non è risultato decisivo. Ma Daniele De Rossi, e noi con lui, si fa bastare per il momento l’evidente supporto che il ragazzo dà alla squadra per ogni sviluppo offensivo, ponendosi come punto di riferimento e vertice alto o nelle più rare proiezioni in area di rigore. E lo stesso discorso si può fare per Dybala.
La partecipazione al gioco è costante, la generosità assicurata, la bellezza delle giocate è commovente: lo stop a sgonfiare il pallone sull’altissima traiettoria domata a metà primo tempo, con la pressione di un avversario addosso, la puoi rivedere a loop cento volte e non ti stanca mai, come quando ti imbatti sui social sulle giocate di Ronaldinho. Ma all’argentino si rimprovera la scarsa efficacia delle soluzioni offensive. Andate a dirlo a chi li prende in custodia, ai giocatori e agli allenatori avversari. La verità è che avere fuoriclasse come questi nel proprio parco attaccanti è un onore per una squadra come questa. Loro sono chiamati ovviamente a dare il meglio per la Roma, ma non si può mai partire da loro per definire i problemi da affrontare.
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