Appartengo, ci tengo, prometto e poi mantengo
Con una certa presunzione, possiamo affermare sia possibile solo in una piazza come Roma, dove l’amore dei tifosi è come José non l’ha mai visto in vita sua
Il calcio è appartenenza prima di ogni altra cosa. Lo sa chi mastica calcio da prima di nascere, come José Mourinho. Lo sanno i romanisti, che con quella fede ci sono nati e ci moriranno. Fieri. Per questo lo Special One ha legato così tanto con la gente di Roma. Perché da uomo di calcio, più di tanti uomini, vecchi e nuovi, di calcio, ha capito che cosa significa appartenere. L’ha fatto ovunque abbia allenato, sì. Ma lavorando nell’oro, si può obiettare, è facile. Lavorando senza, è un’impresa. Che, con una certa presunzione, possiamo affermare sia possibile solo in una piazza come Roma, dove l’amore dei tifosi è come José non l’ha mai visto in vita sua. Ipse dixit. A scatola chiusa, come ha raccontato più volte Mou.
Appartenere, acquisire una carta d’identità, e sposare la causa anche con una certa follia, la stessa che dopo aver dato la parola alla Roma ha portato Mourinho a rifiutare - lo racconterà nel documentario di Netflix - uno dei club più grandi del mondo che l’aveva chiamato in ritardo. Una tifoseria che se l’è dovuto rimangiare scrisse anni fa che José Mourinho era un uomo vero in un calcio finto. E forse è anche per questo che ha legato così con i romanisti. Che appartengono, ci tengono e se promettono poi mantengono. Un amore bidirezionale, perché Mourinho ha mantenuto, ha vinto e così quell’amore è diventato eterno. Roma non dimenticherà l’allenatore portoghese, che è diventato romanista come neanche lui se l’aspettava, forse troppo, e lo sarà per sempre. Come la notte di Tirana, «è per sempre», risveglio dal sogno di un altro sogno sognato, ma rubato, a Budapest. Quando, con l’ennesima battaglia in solitaria, ha rappresentato i tifosi giallorossi e ha ruggito contro l’ingiustizia, nel bel mezzo del no profile della proprietà (vera vittima soprattutto economica di quella serata, per altro), descritta invece come furiosa per i risultati altalenanti degli ultimi tempi e chissà di quanto altro per essere così Fast and furious. Americanamente “schiavi” dei risultati, dei numeri, spesso gelidi (come il 28,3% delle sconfitte, che pare abbia pesato), dei monti ingaggi, degli algoritmi. Legittima sovranità. Un ciclo non ancora chiuso, magari logoro e che imponeva riflessioni. Una scelta che oggi sembra soprattutto impopolare, primo colpo di teatro al contrario, primo vero strappo tra i tifosi giallorossi e i Friedkin, dopo quasi tre anni e mezzo di effetti speciali, di cui Mourinho, e la speranza che ha rappresentato per i suoi sostenitori, è stato genesi e apocalisse.
Nel business (ex calcio), si sa, c’è poca memoria e anche meno riconoscenza. Non ci sono eccezioni, neanche se hai vinto 26 titoli e mezzo in carriera. Roma, però, è diversa, qui il calcio è rimasto indietro. Mou ha unito (quasi) tutti dal 4 maggio 2021 fino a ieri, anche oltre gli alibi e le ragioni. Cosa accadrà ora all’Olimpico dei sold out e all’empatia di due anni e mezzo lo scopriremo solo vivendo. Un figlio di Roma siederà sulla panchina giallorossa anche per mitigare la valanga e il paradosso è che ieri, disorientati, i romanisti non hanno avuto la prontezza di accoglierlo con tutto l’amore che possono. Ma lo faranno.
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