Daje Danie', romanista come noi
Un'intera carriera dedicata alla Roma. E quel rimpianto della seconda che da ieri è in soffitta
Ancora. Da leggere rigorosamente con entrambi gli accenti: ancòra, di nuovo e sempre, in ossequio a una storia immensa, le cui radici non potranno mai essere recise. E àncora, perché mai come ora si avverte la necessità quasi fisica, di un gigantesco e sicuro ormeggio per il romanismo in balia di una tempesta emotiva forse senza precedenti. Questa piazza ne ha passate tante (troppe), ma non nell’arco di un tempo così breve. Dall’incredulità allo sgomento, dal dispiacere alla preoccupazione, dalla rabbia all’orgoglio, il 16 gennaio 2024 ha condensato in poche ore tutta la gamma di sentimenti.
Ma Daniele De Rossi rappresenta la sintesi perfetta di ogni suggestione romanista. Quanto al tempo, lo ha percorso e precorso con la forza di un titano. Fin dai primordi: nessuno è ancora consapevole delle innumerevoli pagine che scriverà nella straordinaria storia d’amore con la Roma, quando viene immortalato da bambino col completino d’ordinanza giallorosso. Caschetto biondo, un sorrisone stampato in viso che racconta come nessun outfit potesse essere migliore per lui, una tv con tubo catodico alle spalle che nemmeno lascia presagire il futuro. Quello «non è (ancora, toh) scritto». Dalla rivoluzione punk alla rivoluzione sul prato dell’Olimpico. E quella parola così intrisa di speranze e promesse è lontanissima dalla cucitura addosso a Daniele, che è soltanto un ragazzino che gioca attaccante nell’Ostiamare. Sognando però la Roma, più della California.
Quando gli si schiudono le porte di Trigoria, la favola prende forma: incrocia sulla sua strada il tecnico Bencivenga, che ne intuisce doti caratteriali e tecniche, arretrandolo prima a trequarti e poi a centrocampo. Il fiuto del gol resta, la capacità di ragionare e giocare prima per il gruppo che per se stesso comincia a plasmarsi. La prima squadra è allenata da Capello, che comincia a notare De Rossi e Aquilani. Il ragazzo di Montesacro è la stellina della Primavera, più quotato tecnicamente e a prima vista più pronto per il grande salto. Ma quando viene schierato - racconterà a distanza di anni Don Fabio - non riesce a fare le stesse giocate prodotte in allenamento. Daniele sì. Nonostante sia appena maggiorenne ha personalità da vendere, tanto da esordire in Champions con lo scudetto sul petto, il 30 ottobre 2001 contro l’Anderlecht, per proseguire la gavetta con qualche presenza in Coppa Italia. Quella successiva è la stagione del debutto in campionato, il 25 gennaio 2003 a Como. Alla prima da titolare segna contro il Torino, poi replica con l’Atalanta. Il presidente Sensi gongola pubblicamente («Visto il ragazzino?»), l’allenatore campione d’Italia lo coccola, intravedendo le stimmate del predestinato. E l’anno dopo De Rossi esplode definitivamente: gol, giocate sopraffine, senso tattico fuori dal comune per uno della sua età. L’Italia si stropiccia gli occhi, il ct Lippi lo strappa dalla leadership dell’Under 21 fresca vincitrice dell’Europeo e ne fa da subito un perno della Nazionale, ricevendo risposte immediate e strabilianti con un’altra rete al debutto, a Palermo con la Norvegia: la prima di una lunghissima serie che ne farà il mediano più prolifico della storia azzurra.
Mentre Daniele sale di livello, la Roma vive una fase di ridimensionamento, fra cessioni eccellenti e addio di Capello. Si ricomincia con tanti giovani del vivaio, qualche nuovo arrivo di medio livello e il trio guidato da Totti in avanti a fare da chioccia. L’annata è maledetta: si avvicendano cinque tecnici e il rischio retrocessione diventa concreto. Ma quel numero 4 è ormai una certezza. Per i compagni come per la gente romanista. Le sue esultanze sfrenate e sanguigne diventano iconiche, la vena che gli si gonfia sul collo paradigmatica di un modo di essere tifoso prima che giocatore. L’era delle bandiere compie il suo giro finale, ma fra i colossi Maldini, Zanetti, Del Piero e soprattutto Totti, s’incunea lo stile nuovo e al tempo stesso antico di Daniele. Diventa Capitan Futuro alle spalle del Dieci e con lui vince il Mondiale. Il primo Spalletti lo esalta portandolo a vette inarrivabili: centrocampista completo, forte fisicamente, sapiente tatticamente, capace di tackle da difensore come di colpi da fantasista. Si sprecano i paragoni con Lampard e Gerrard, anche se il suo idolo resta Roy Keane, il cattivo per eccellenza del calcio britannico, che lo cerca con insistenza. DDR però non cede alle lusinghe, inizia a sollevare trofei con la Roma, sfiora più di uno Scudetto, ma anche nelle stagioni più buie e perfino a scadenza di contratto non ha dubbi su quale maglia indossare. Quella dei sogni non gli viene strappata nemmeno dall’ostilità di Zeman e di una parte di piazza radiocomandata, ma nel 2019 è la società a sfilargliela unilateralmente. E soltanto materialmente: è ancora il marchio invisibile che campeggia fra i suoi tanti tatuaggi. Alla conferenza d’addio i compagni ne indossano una col simbolo algebrico dell’infinito, davanti a lui, emblema calcistico di un amore senza fine. Ora potrà finalmente donare un’altra carriera alla Roma. La sua. La nostra.
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