"Indiana Jones tifa Roma"
Parla il doppiatore delle star di Hollywood: "Con me i grandi del cinema sono diventati romanisti. Ho amato Da Costa, Galli, Batistuta e Totti"
A pranzo con Indiana Jones, se volete chiamatelo Harrison Ford. Presenti anche Kevin Costner, Jack Nicholson, Richard Gere, Bob Hoskins, Morgan Freeman, Bill Murray, Elliot Gould. Ci fermiamo qui. Tavolo per due, però. Sufficiente. Perché chi scrive ha avuto il piacere di farsi una chiacchierata sulla Roma con Michele Gammino, presentatore (ricordate Giochi senza frontiere?), attore di cinema e teatro, ma soprattutto doppiatore, uno dei più bravi dell'eccellente scuola italiana, la voce made in Italy di tutti i fenomeni che vi abbiamo detto, una lista che ne comprenderebbe moltissimi altri perché stiamo parlando di un autentico numero uno. Anche come tifoso della Roma. Una passione, quella per giallorossa, che questo signore nato l'anno precedente al primo scudetto giallorosso, non ha mai nascosto «perché se nasci a Roma, non ti poni neppure il problema per chi tifare, sei romanista per sempre».
Michele quindi pure Indiana Jones è della Roma?
«Non capisco l'interrogativo, certo che lo è».
Quali sono i tuoi primi ricordi da romanista?
«Ho solo ricordi romanisti. Papà era siciliano, di Palermo, non era un appassionato di calcio. Io invece mi sono innamorato di quel pallone da prendere a calci. E ho pure provato a fare il calciatore».
Raccontaci.
«Ero un centravanti, uno che faceva gol, mi chiamavano Napoleone. Avevo un tiro forte, quando mi arrivava il pallone non ci pensavo troppo, io tiravo in porta, mica come i giocatori di oggi che stanno sempre lì a passarsi il pallone. E quando li vedo mi arrabbio. A me sono piaciuto campioni come Carletto Galli e quel fenomeno di Batistuta».
Con quale squadra giocavi?
«La Forlivesi, una società che era finanziata dalla Roma. Il supervisore era un certo Masetti, il mitico portiere del nostro primo scudetto. Con me c'era anche Bebo Leonardi che poi arrivò a giocare con la Juventus. La domenica, sto parlando del 1954-55, andavamo a fare i raccatapalle all'Olimpico».
Alle partite della Roma, giusto?
«Certo. Era una grande emozione. Anche perché quando entravamo noi voleva dire che la partita stava per cominciare e venivamo accolti con un'ovazione».
Vero che hai fatto un provino anche per la Roma?
«Vero. E l'avevo pure superato, mi volevano prendere».
Invece?
«Invece mio papà non firmò».
Papà severo.
«Ero stato bocciato a scuola e allora niente firma».
Quindi pure niente pallone?
«No, no, il calcio era ed è una passione come quella per la Roma».
Il tuo primo idolo chi è stato?
«Dino Da Costa. Un grande goleador. Mi piaceva perché tirava forte e faceva gol. Una volta mi fece anche un regalo».
Quale?
«Un paio di pantaloncini della Roma. Mi emozionai».
Immagino che li hai ancora.
«No. Per colpa di mia madre».
Come per colpa di tua madre?
«Io li conservavo come un trofeo. Mia madre li vide, notò che erano tutti consumati e li fece a pezzi per farne delle pezze per spolverare. Per me fu un colpo al cuore, la perdonai solo dopo tanto tempo».
Sei stato un frequentatore di stadio?
«Di più. Per quasi quaranta anni sono stato abbonato in tribuna Tevere. Poi per colpa del sole che in Tevere ti incoccia, mi sono spostato in Monte Mario. E vuoi sapere chi avevo come vicino di posto?».
Certo.
«Gaetano Anzalone. Era innamorato della Roma. La stava lasciando, mi ricordo che un giorno si mise quasi a piangere per la tristezza di averla ceduta».
Quale partita di quel periodo ricordi con maggior piacere?
«La finale della Coppa delle Ferie. Quella vittoria contro il Birmingham fu una gioia indescrivibile che porto ancora nel cuore».
Con chi andavi allo stadio?
«Mia moglie Livia è sempre venuta, sin da quando eravamo fidanzati. Col tempo, è diventata più tifosa di me. E con noi c'erano quasi tutti i migliori doppiatori italiani perché erano tutti tifosi giallorossi».
A chi ti riferisci?
«Pino Locchi, la voce di 007, un grandissimo, Ferruccio Amendola, un altro fuoriclasse».
Il papà di Claudio, no?
«Esatto. Claudio sin da ragazzino era tifosissimo, mi ricordo che gli piaceva vedere la partita in mezzo a me e mia moglie».
Te continuavi a giocare?
«Certo. Il calcio è una mia grande passione. Sono stato anche allenatore alla Libertas Nomentano, dirigente del Collatino. Vedo calcio a tutti i livelli, Primavera, allievi, pulcini. Se mi capita di incrociare per strada ragazzini che giocano, io mi fermo e mi metto a guardarli».
Fino a quando hai giocato?
«A sessanta anni l'ultima partita con la nazionale degli attori. Addio festeggiato con un gol su punizione. Grazie a Lojacono».
Cioè?
«Quando ero giovane andavo al campo Roma a vedere i campioni che si allenevano, tra questi c'era Lojacono. Lo osservavo quando tirava le punizioni per cercare di rubargli i segreti».
Sbaglio se penso che la Roma che hai più amato è stata quella degli anni ottanta?
«Non sbagli. Quella era una Roma formidabile che ebbi anche la fortuna di frequentare».
In che modo?
«Dal 1979 al 1982 ho presentato in tv «Giochi senza frontiere», un programma che all'epoca era seguitissimo in tutta Italia. Ebbi un periodo di grande popolarità. Cosa che mi confermò anche la signora Flora Viola».
In che modo?
«Quando conobbi il presidente, la meravigliosa signora Flora mi disse che non si perdeva una puntata di giochi senza frontiere. Era una nostra fan, così come Franco Tancredi. Il presidente, anzi no, non posso chiamarlo presidente».
Come non puoi chiamarlo presidente?
«Una volta mi chiese perché lo chiamavo presidente, «io sono ingegnere anche se da quando sono il proprietario della Roma nessuno mi ci chiama più» mi spiegò. Ci teneva. Mi adeguai».
Di quella Roma che altri ricordi hai?
«Nils Liedholm. Una persona meravigliosa. Vuoi che ti racconti un episodio sul Barone?».
Vai avanti.
«Un giorno ero nel quartiere Prati, davanti al portone degli uffici dei Cecchi Gori. Dall'altra parte del marciapiede vidi che stava passando Liedholm. Per discrezione non dissi nulla, poi sentii lui che mi rimproverava, «ehi presentatore che fai non mi saluti più?».
Liedholm era un personaggio straordinario.
«Fantastico. Ho sempre dubitato che fosse svedese. Era molto in confidenza anche con il mio amico Maurizio Merli che purtroppo se ne è andato troppo presto, lo chiamava Garibaldi».
Hai conosciuto anche i giocatori di quella Roma?
«Certo. In particolare un fuoriclasse chiamato Paulo Roberto Falcao».
Cioè il numero uno.
«Lo era anche fuori dal campo. Con lui e Pato andavamo spesso a cena dall'Ammiraglio insieme a un altro grande doppiatore come Angelo Nicotra, pure lui tifosissimo della Roma. Si trascorrevano delle serate fantastiche. Ma tutti i ragazzi di quella Roma erano meravigliosi, ho un grande ricordo anche di Carletto Ancelotti un campione come ne abbiamo avuti pochi. E non parlo solo di Roma, ma di calcio italiano in generale».
Seguivi la Roma anche in trasferta?
«Come ne avevo la possibilità. Si partiva se possibile il venerdì sera, al massimo il sabato mattina, la domenica si vedeva la partita e poi si rientrava a casa. Quella Roma ce la siamo goduta alla grande. All'Olimpico andavamo tutti vestiti di giallorosso».
Siete mai stati coinvolti in qualcosa di spiacevole?
«Una volta a Bari».
Spiegaci.
«Partita di coppa Italia, era l'anno in cui Dino Viola diventò presidente. Ero a Bari perché con Maurizio Merli stavamo facendo uno spettacolo a teatro. Andammo allo stadio. E lì incontrammo Picchio de Sisti, nostro grande amico. Mi ricordo che per andare in tribuna, attraversammo il campo tra le ovazioni del pubblico. Io in quel periodo ero popolarissimo, Maurizio pure, De Sisti un grande del calcio italiano. Ci sistemammo ai nostri posti. E lì accadde il fattaccio».
Ovvero?
«Di Bartolomei, il grande Agostino, segnò il gol decisivo su punizione. Noi esultammo, i tifosi baresi non la presero bene, fummo costretti a uscire con la scorta».
Qual è la partita che senti di più?
«Risposta facile. I derby. Quando li vinci ti regalano un'emozione senza eguali».
E quale è stata la partita che ti ha ferito di più?
«Facile pure qui. La finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Ricordo che decisi di non andare allo stadio. Organizammo una cena a casa nostra con un po' di amici. Alla fine non mangiò nessuno, rimase tutto lì, per cinque giorni a casa non si disse una parola. Ma la cosa che mi fece più male è aver visto, quella sera, la tristezza negli occhi dei miei figli Roberto e Giampaolo che sono tifosi come se non più di me».
La Roma di questi anni continui a seguirla?
«Ci mancherebbe. Anche se allo stadio non ci vado più. Del resto andarci è diventata una specie di via crucis, troppe limitazioni».
Dei tempi moderni non credo di sbagliare dicendo che il tuo giocatore idolo è stato Totti.
«E come si fa a rispondere il contrario? Un fuoriclasse assoluto. Ho una sua maglia autografata che conservo gelosamente. E ho un pallone della Roma firmato da Francesco che è esposto nel mio studio come un pezzo d'arte importante».
De Rossi è il suo erede?
«Che ragazzo fantastico oltre che grande giocatore. A lui, peraltro, devo chidere scusa».
Perché?
«Perché con lui ho toppato. Io ho sempre seguito anche la Primavera, mi piaceva indovinare le potenzialità dei giovani. Con lui ho sbagliato. Non pensavo che sarebbe diventato quello che è, cioè un campione internazionale. Mi spiace vederlo alle prese con gli infortuni anche se so che quando va in campo dà il massimo che è poi quello che conta più di qualsiasi altra cosa».
Della Roma di questi tempi che idea ti sei fatto?
«Con la Roma di Di Francesco, pur apprezzando l'uomo e il giocatore che è stato, non sono mai riuscito a innamorarmi, non riuscivo mai a stare tranquillo. Facevo fatica a capire come voleva giocare, ma magari era un problema mio».
Però quella notte contro il Barcellona...
«Meravigliosa, indimenticabile. Spero non sia unica e che presto si possano rivivere emozioni come quelle».
Sei stato un centravanti, Dzeko ti convince?
«I gol li fa, bravo è bravo, ma non è il mio centravanti ideale. Ha il piede troppo grande».
Che vuoi dire?
«Io sono della vecchia scuola, un calciatore deve avere massimo quarantadue di scarpa, se va oltre sbaglia i gol».
Chi ti piace di questa Roma?
«Zaniolo. Mi sembra un predestinato. Ha tutto, piedi, testa, tigna, ma per arrivare non dovrà montarsi».
Ranieri è l'uomo giusto al momento giusto?
«Me lo auguro. È una persona per bene. Pensa che ci ha giocato pure contro».
Quando?
«Finale di un torneo, lui giocava con il Dodicesimo giallorosso, perdemmo, lui ci fece due gol. Alla fine di quell'anno lo prese la Roma».
Cosa ti dà fastidio del calcio?
«I simulatori. Insopportabili. Ai miei tempi se non ti sbrigavi a rialzarti erano i tuoi compagni a picchiarti».
La Roma sta provando a costruire il suo stadio, però...
«Lo sogno da sempre. Sono entusiasta all'idea sin dai tempi di Viola. Ora ci stanno provando, ma quanti anni sono che la società sta combattendo questa battaglia?».
Troppi, Michele, troppi.
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