Dalle tribune dell'Olimpico una pioggia di dubbi
Le preoccupazioni erano diffuse ancora prima che cominciasse la partita. Il dislivello in campo coi rossoneri non ha fatto che aumentarle. Lukaku fa sperare ma non basta
Il mercato si è chiuso. Lukaku l’abbiamo festeggiato. Adesso, per favore, pensiamo al Milan». Le parole arrivano dal seggiolino accanto al mio. Ma si capisce subito che sono espressione di un sentimento di preoccupazione più che diffuso. Ti guardi intorno e c’è, poi, quella contraddizione del sold out che poi tanto sold out così non è, perché li vedi, qua e là, degli spazi delle tribune non occupati («Eravamo de più cò la Salernitana»).
Insomma, si prende posto e la sensazione è che prevalga, più che un senso di partecipazione, uno scetticismo contagioso. Ovviamente, quando piove troppo diventa tutto pozzanghera. E, quindi, conosciuta la formazione di partenza, non si salva nessuno («Rui Patricio? Doveva mette Svilar»; «Celik? Celik su Leao? Ma che è, ‘no scherzo?»; «Cristante e Paredes insieme nun ponno giocà»; «Come se fa a tenè fori Bove»). È evidente che il tempo del c’è tutto un campionato davanti e dell’Europa League che deve ancora iniziare sta volgendo precipitosamente al termine. Qui non senti una parola sullo Slavia Praga o sul Servette. E non senti nemmeno una parola su quelli che stanno peggio di noi. Ed anche questo è un chiaro segnale che è arrivato il momento di dimostrare e non di promettere («Nun vojo sentì più parlà de arbitri, de pali, de ‘na squadra bella ma sfortunata: vojo vince»).
Il problema è che, dopo una manciata di minuti, ci ritroviamo tutti fradici e senza ombrello. Perché quel rigore è la materializzazione perfetta delle preoccupazioni, anche diverse, di ciascun tifoso. Si va, difatti, dalla storia della classe arbitrale che ce l’ha con noi («E rigore nun l’ha visto nessuno, manco lui. L’hanno visto solo quell’artri ar microscopio»), a Rui Patricio che c’è solo quando non dovrebbe («Pe ‘na vorta che doveva stassene ‘n porta è uscito pè fa danni»), al centrocampo che non filtra («Hanno saltato la linea cò dù tocchi»), alla difesa che non difende («Se nun sbatteva addosso ar portiere, entrava ‘n porta cò tutto er pallone»). Ma il vero problema è che il Milan è padrone della partita e questo è chiaro a tutti («Dù categorie de differenza»).
Il solo che raccoglie consensi è Belotti, quello stesso Belotti che la scorsa stagione veniva dato per finito e che adesso trova solo applausi per come si sbatte e per come prende falli («Ce mette la tigna. È er solo»). Ma non c’è davvero voglia di dire altro. Perché quello che si vede è, francamente, troppo («Ma mò me voi dì che noi, ‘nCampionato, avremmo dovuto fa la corsa sur Milan? Ma davero?») e non si capisce come si possa segnare, visto che non hai mai tirato in porta («Poi pareggià se non piji gò, ma, dopo che l’hai preso, cò sta squadra me devi dì come pareggi»). Il guaio è che, in questa situazione, il secondo tempo inizia con due segnali pessimi. Il primo, che nessuno viene mandato a scaldarsi («S’è rassegnato pure Mourinho»); il secondo, che Celik interpreta alla perfezione il ruolo che i tifosi più pessimisti avevano immaginato per lui, e cioè quello della bella statuina che sta lì a guardare Leao mentre si inventa il gol da raccontare ai nipoti («Che t’avevo detto su Celik e Leao?»).
Da quel momento, l’attesa è solo per le sostituzioni («Ne fa quattro insieme, vedrai»), con la certezza che sicuramente entrerà Lukaku ma che, in quel deserto, potrà fare poco o nulla («Nun è che po’; annasse a pija la palla in difesa pè annà a segnà»), nella speranza che, per fargli posto, non venga tolto Belotti («Se leva Belotti, allora nun ha capito»).
E questa, da parte della tribuna, è un attestato, soprattutto quando Tomori va via, in favore del Gallo (che se lo merita, va detto), inaspettato e non di poco conto. Il resto sono soltanto tutte maledizioni, irripetibili, per i “quinti” che non sanno crossare («Tutti palloni ‘n bocca ar portiere»), per il Milan che perde tempo manco l’Uruguay ai tempi del Mundialito («Stanno sempre per tera»), per noi che il primo tiro l’abbiamo fatto quando mancavano venti minuti alla fine («ce l’avemo fatta»), per la sfortuna che ci ha tolto la gioia di festeggiare il primo gol di Lukaku al primo pallone toccato («Mamma mia … pensa se segnava»).
Ma, a quel punto, nemmeno lo sprazzo di vitalità di Spinazzola («Questo è ‘n giocatore che va aspettato, perché, de tutti, è er più forte»), la consapevolezza che Lukaku sia, lì davanti, il giocatore che ci mancava («Questo è fortissimo») ed il buon impatto sulla partita di Bove («È l’unico che corre, non puoi non farlo gocare») riescono a dare fiducia per quello che sarà. Perché, alla speranza diffusa da un anziano tifoso che, uscendo, ricordava a tutti come questo, tutto sommato, fosse «calcio d’agosto», faceva subito eco un «sì, ma agosto è finito: mò ormai stamo a settembre», che faceva a tutti toccare con mano che stiamo non solo ad otto punti dalla prima ma, e soprattutto, ad uno dall’ultima. Che, purtroppo, non sono più quegli altri. Ed è questa un’altra notizia che ci ha tolto anche quell’ultimo mezzo sorriso.
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