Double face day: ripartire dall'amarezza a caccia di sogni
Dall’amarezza al rilancio, passando per l’orgoglio di ogni romanista nel mondo. Non far cadere nel vuoto il grido di Mourinho per tornare a sperare nella forza dei sogni
Chi l’aveva già vissuto, chi ha assaporato “quella” amarezza per la prima volta, chi, magari giovanissimo, si stava o si sta abituando bene. Il pareggio di Budapest, i supplementari e i rigori, il decollo dall’Ungheria senza quella coppa, già maledettamente sfiorata nella stagione 1990-91, ha unito tutti, senza distinzione d’età. Né di geolocalizzazione, se milioni di romanisti, chi era nella splendida capitale magiara, chi era a Roma e chi in ogni altra parte del mondo per 146’ di gioco ha sofferto tutto in una volta il fascino double face di una finale, con la magnifica attesa, con il viaggio d’amore, con le certezze, con le illusioni, con gli inganni, con le ingiustizie.
Double face come una medaglia, come la medaglia che José Mourinho ha lanciato al bambino che è in tutti noi. Quelli che avevano vissuto il Liverpool, o il Lecce e la Sampdoria, e l’Inter. Quelli dell’harakiri e dei torti arbitrali ricorrenti. Gli stessi che hanno toccato il cielo con un dito nel 2001 e negli anni seguenti del consolidamento, che hanno tramandato romanismo alle generazioni successive. Quelli che hanno alzato la Conference a Tirana e hanno raccolto la magia e il sogno. Uniti anche se lontani, importanti anche se non contano niente.
Una delusione top quella della Puskas Arena, un’altra data che scorrerà nel sangue giallorosso dei sostenitori della squadra che porta il nome della città eterna. Sconfitta solo dal fato, ingiusto nell’aver consentito all’Uefa di combinare l’incrocio tra la Roma di Mourinho con il fischietto inglese Taylor, protagonista in negativo e decisivo della sfida con il Siviglia.
Ma anche di aver riempito per troppo tempo l’infermeria di Trigoria. Di aver creato, insomma, delle condizioni non ottimali per giocarsi una finale. Eppure la Roma è uscita a testa altissima dall’Europa League, anche se nella maniera che fa più male. Questo l’ha capito ogni romanista, dal più piccolo al più grande. Lo ha capito chiunque. «Tutta Europa l’ha visto», ha detto Mourinho ai giocatori. Dall’orgoglio dei più di 20.000 presenti a Budapest, chiassosi nel primo tempo, più silenziosi nel secondo e via via che supplementari e spettro dei rigori atterrivano il “settorone” riservato ai romanisti (da registrare alcuni disordini con la polizia locale durante la gara, che sarebbero stati tra i motivi di torpore nei momenti più importanti della finale e che hanno portato anche la squadra e la panchina in particolare a richiedere ulteriore sostegno).
Un orgoglio che va al di là del calcio, al di là delle ingiustizie che pure tocca spiegare ai più giovani. I tanti bambini presenti in Ungheria e non solo, i tanti numeri 21, o 7, incrociati nelle vie di Buda e di Pest, inconsolabili, oggi squarciati in due da tristezza e onore. Double face. Come la medaglia che Mourinho ha lanciato ai romanisti, prima di pronunciare il discorso del re a fine partita. Prima di dare della «disgrazia» all’arbitro inglese e ai suoi pavidi collaboratori. Prima di chiedere al club di metterlo in condizioni di restare a lungo nella Capitale a rendere possibili ancora sogni e sogni. Perché José da Setubal ha capito Roma. Non avrà offerte, d’accordo, nel calcio conta eccome. Non avrà bisogno di soldi, è ovvio, ma certamente è alimentato dall’ambizione di altra gloria. «Resto qua per voi», una frase rubata dallo spogliatoio a cielo aperto della Puskas Arena dopo centocinquantamila minuti di gioco. «Resto» per proteggervi, per difendervi. Voi, i suoi giocatori. Voi, i suoi tifosi. Voi, i suoi avversari. Voi, i suoi detrattori.
La sfida non finisce per lo Special One, si nutre dell’orgoglio dei figli della lupa. Dell’orgoglio di una piazza, prim’ancora che di un gruppo di calciatori, che si è aggrappata a lui e che non vuole più essere derubata, essere prosciugata da opportunisti e accettarlo in silenzio, essere meno grande di quello si aspetta. A scatola chiusa, a maggio 2021. E ancora adesso, giugno 2023. Adesso che la scatola è aperta e i romanisti ci hanno guardato dentro, scoprendo quello che interisti, madridisti, blues, tifosi del Porto, hanno sempre testimoniato.
Ci hanno creduto, come ci ha creduto lui in questa finale di Budapest.
Ora, almeno nelle intenzioni, nessuno vuole chiudere la scatola. Nessuno chiederà la scatola magica, perché magica è già la Roma. Ma che i romanisti meritino di più, che Mourinho meriti di più, che i Friedkin stessi meritino di più è il dato più certo di rientro da Budapest. Si dice che tutte le strade portano a Roma, lo sa José, adesso, lo sa Dan, lo sa Ryan. Non resta che trovare quella che nella città giallorossa riporti tutti insieme. Appassionatamente
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