Facciamo 31
Un solo giorno di distanza che vale un’intera esistenza. Anzi, milioni. Le nostre. Le vostre. Le loro. Di tutti i romanisti.
Perché alla fine è tutto lì. Fra un 30 e un 31. Un solo giorno di distanza che vale un’intera esistenza. Anzi, milioni. Le nostre. Le vostre. Le loro. Di tutti i romanisti. Di quelli che non c’erano ancora 39 anni fa, e nemmeno 29, ma il 30 maggio ce l’hanno dentro, tramandato anche se non se ne parla, anche se quella partita non si è mai giocata, se Ago fa ancora dolore («è la storia, non colui che la racconta» lo insegnano i re, da King al Commando). E quel giorno vale l’esistenza di chi lo ha vissuto in prima persona, provando a cancellarlo o aspettando il momento della rivincita. In fondo conta poco la modalità, che appartiene troppo alle sfere personali per essere contestata in un senso o nell’altro. Conta invece che per ognuno, a prescindere da generazioni e reazioni, non sarà mai un giorno come tutti gli altri, ma apice e abisso, zenit e nadir, alfa e omega della nostra storia. Ogni cosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure. E se a Tirana è partito il riscatto e Pelle con la coppa sulle spalle di Dibba è molto più che una splendida allegoria sui muri di Testaccio, a Budapest si può andare avanti. Voltare pagina. Che non significa cancellare quello che è scritto prima (perché nessuna sconfitta potrà mai spedire in soffitta l’orgoglio romanista), ma provare a far girare davvero e definitivamente la storia. Il 31 può essere l’alba che permette di ricordare il tramonto del 30 senza la struggente malinconia che lo ha accompagnato finora. E trasformare i volti trasfigurati e i muscoli tirati di queste ore di ansia infinita, in mistica di un’intera comunità. Mai così stretta. Perché comunque vada, siamo tornati popolo. E fra 30 e 31 c’è spazio per uno. Corpo unico. Forte. Fiero. Romanista.
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