Incertezza Regna
La gara con l’Inter tra alibi e ragioni: «Semo questi», «Ascoltate Mou». La testa al Leverkusen, tra paure e speranze. L’allenatore e la società, tra grida e silenzio
La verità è che, finita la speranza («Io ‘n po’ c’ho creduto fino a quanno Camara nun l’ha mannata sur Centrale») ed avvolti nella quarta delusione di fila, si resta sospesi, nel momento dell’abbraccio di Mou a tutta la squadra, tra quel «Gli sta chiedendo che pizze vogliono pe stasera», buttato lì, beffardamente, da el Tano, e quel «comunque stamo sempre a tre punti dalla Champions, se, alla fine, alla Juventus je danno a penalizzazione». E la distanza tra quel disincanto e quell’illusione è uno spazio infinito, che si misura a colpi di ricordi. Da una parte, chi si richiama a quando iniziò male e finì peggio («Te ricordi l’84? Alla fine avemo perso Coppa e Campionato»); dall’altra, chi, al contrario, si richiama a quando iniziò male ma finì bene («Te ricordi er Bodø l’altr’anno? Poi semo annati a vince a Tirana»).
Ma tutte e due le fazioni non possono fare a meno di muoversi su di un piano di realtà, che trova tutti d’accordo: «Non è che semo diventati scarsi tutto de ‘n botto»; «Se recuperamo qualcuno, giovedì è n’antra partita». E qualcuno, novello Roosevelt, ricorda come Ibañez «sarà pure diventato scarso, ma gioca sempre pe’ noi e fino al 4 giugno dovemo sostenello».
Quei minuti, quindi, che separano, chi vi scrive, dal fischio finale al cavalletto del motorino, sono una processione nel turbinio di emozioni che questa quarta consecutiva partita ci impone di vivere. E sono, per onestà va detto, il momento fin qui più basso che siamo stati chiamati a vivere nel dopo Tirana. Di peggio, difatti, c’è solo uscire dalla Coppa e non avere più stimoli per il Campionato. Ma, ed anche questo, per amore di verità, va detto, manca un attimo, perché il baratro sta lì, a pochi passi («Giovedì te giochi tutto. Se va male, potemo pure annasse ‘n vacanza»). E quello che peggiora, e di molto, l’umore è questa incertezza generata dalle parole di Mourinho. Sono quel detto e non detto. Sono quella speranza di interpretare una sillaba affinché resti («Parla alla Società: vo resta’») e la paura di dover ricominciare con un nuovo ciclo tra nemmeno un mese («Se ne va. E tra un mese ce tocca fa l’abbonamento ar buio, che nun sai chi viene e chi resta»). Ma, e soprattutto, di dover ricominciare con qualcuno, e da qualcuno, che non sia il Mou che, ed anche questo va ricordato, per la Tevere (e non solo) rappresenta il meglio che si possa avere in panchina («Se nun vinci co lui, nun vinci co nessuno»; «Se se ne va, nun me rifaccio l’abbonamento»). Ma, dall’altra parte, c’è un grido rivolto anche alla Società, a cui si chiede una parola che indichi la strada («Possibile che Mourinho parla e nessuno je risponne?»). Perché vi è la necessità che qualcuno dica qualcosa che dia tranquillità e chiarisca quale sia il percorso («Ma questi perché non parlano? Se nun vonno risponne a Mou, a noi, però, ce devono di’ quarcosa»; «Ma chi è che deve parla’? Pinto? Lina o come se chiama lei? Perché i Friedkin nun parleno»).
È in questo deserto di certezze che si continua a camminare, incolonnati (perché la Tevere, al solito, malgrado in campo vadano oramai i superstiti, è sempre e comunque stracolma di gente), cercando conforto nelle parole dell’altro («Che dici? Giovedì, a ’sto punto, che famo?»). Ma il problema è lo scollamento, che avverti, tra campo e tribuna. È come se quella palla filtrante, nel primo gol, e quell’amnesia, nel secondo, abbiano fatto perdere fiducia sulla tenuta dei singoli («Semo questi: giovedì nun annamo da nessuna parte») e che la consolazione possa essere trovata solo nel senso, più alto, del romanismo («Noi ce semo sempre stati e ce saremo sempre»). È l’effetto dei risultati: pareggi e perdi, Mourinho alza il tiro delle proprie doglianze, la Società tace e tu stai lì che ti senti un po’ come quei soldati che, colpevoli di non aver capito che la guerra sia finita da un pezzo, continuano a combattere, da soli, nel Pacifico, contro il nulla («Pare che solo noi semo rimasti a credece»).
Quello che si chiede, quindi, è di ritrovare immediatamente un’unità di intenti, ma fra tutti («La Società deve sta’ a senti’ Mourinho e devono programma’ l’anno prossimo. Nun se pò ricomincia’ da capo»). Questa sensazione che l’allenatore stia da una parte e che la Società sia distante è vista come il nemico numero uno («Domani vorrei legge che la Società dice che Mou rimane, perché così nun se po anna’ avanti») e, soprattutto, quello che si chiede è di continuare ad alimentare l’entusiasmo che ha riempito lo Stadio anche quando abbiamo giocato contro squadre che, senza che nessuno si offenda, non è che fossero proprio il Real Madrid. È questo che la Tevere chiede. Con la sola eccezione, come mi viene in mente mentre tiro giù il cavalletto, de el Tano. Che, però, è l’eccezione che conferma la regola. Ma questo i Friedkin immagino che lo sappiano.
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