"Nella tana dei lupi": a tu per tu con Paolo Assogna
Il noto cronista di Sky Sport ci racconta il suo libro su Trigoria: «Subisco il fascino di Totti, ho iniziato a raccontare la Roma a Trigoria con Mazzone»
Una da vita da inviato, passata tra stadi, aeroporti e sale stampa. Un legame indissolubile con la sua città, con il racconto della Roma che da anni lo rende protagonista di tanti racconti e innumerevoli trasferte. Abbiamo avuto il piacere di parlare con Paolo Assogna, noto cronista di “Sky Sport”, autore del libro “La tana dei lupi”, incentrato sul quartier generale giallorosso.
Dal microfono di Sky Sport ad una penna virtuale. Come nasce l’idea del libro?
«L’idea nasce da Gianluca Di Marzio per la collana sport di Cairo Editore. L’esperimento era riuscito su Milanello con la firma di Peppe Di Stefano. E così Gianluca ha chiesto la mia disponibilità. È stato un lavoro molto lungo, di ricerca e di aneddoti, tante storie di Trigoria con un percorso a cui ho dato una certa suddivisione. C’è il filone che riguarda i presidenti, tanti personaggi sparsi, gli scherzi e le contestazioni. Un viaggio di oltre 40 anni attraverso personaggi e storie».
Paolo, che cosa rappresenta Trigoria per te? Ricordi il primo giorno o il primo aneddoto che ti lega al quartier generale della Roma?
«Rappresenta un pezzo di vita professionale. Ho iniziato a frequentare Trigoria a metà anni 90, con Mazzone allenatore. Mi ricordo che un giorno sbagliai l’orario dell’allenamento: era aperto soltanto quello del mattino, il pomeriggio non si poteva entrare. Nel pomeriggio chiesi a Cenci se fosse possibile fare un’eccezione, Mazzone disse di sì e io entrai in campo, accanto a lui, mentre la squadra era in campo».
Da quel giorno a oggi: quanto è cambiato il modo di raccontare una squadra di calcio?
«Tantissimo, io ho avuto la fortuna di essere preso per mano in questo racconto da Mimmo Ferretti, una guida fantastica. Mi raccontò di questa specie di ufficio che c’era accanto all’ingresso principale di Trigoria, dove i giornalisti avevano ingresso libero. Il bello è che ognuno aveva un interlocutore, una fonte privilegiata e una storia da raccontare. Il giorno dopo il lettore aveva una varietà dei contenuti fantastica. Oggi il nostro ruolo è di un’omologazione deprimente. Al calcio di oggi non gli va di essere raccontato: prima la creazione dei canali tematici con contenuti esclusivi, poi l’avvento dei social dove i calciatori sono diventati editori di sé stessi».
Nella prefazione del libro c’è una firma pesante, quella di Francesco Totti...
«È stato meravigliosamente gratificante raccontare la storia di Totti. Potevo facilmente cadere nella tentazione di fare un libro su di lui, non è stato semplice. Ma raccontare la sua storia è sempre stato un meraviglioso privilegio. Lo ringrazio per la prefazione. La grande fortuna di raccontarlo ha reso il mio lavoro più bello».
Nel corso degli anni c’è stato un giocatore o un dirigente con il quale è stato più bello parlare di calcio?
«La generazione dei Totti e De Rossi, l’ultima dal volto umano. Parliamo dell’era pre-social, pre cuffie in testa all’arrivo allo stadio.
C’era un’empatia diversa, ero dentro Trigoria e ho avuto questo privilegio di stare a contatto con loro. Un bagaglio professionale formidabile. Ho vissuto da dentro gli ultimi giorni di Totti da calciatore, ho avuto la fortuna di incrociare De Rossi a fine contratto. Gli chiesi: «Ma che fanno con te?», «Ancora non mi fanno sapere niente. Tu che ne sai?» mi rispose. «Vogliono verificare le tue condizioni» aggiunsi, «Se aspettano un altro po’ io faccio le mie scelte» fu la sua chiusura.
È stato quello il tuo momento più alto o ne hai un altro?
«Il “mio” momento è quando raggiungo la certezza che la Roma non vuole rinnovare il contratto a Francesco Totti. Quanto pesava il microfono quel giorno, stavo per dare una notizia che avrebbe sconvolto la vita di una città intera, una notizia che sarebbe stata ripresa dalla CNN e dai media in tutto il mondo, il momento di maggior tensione e intensità mai provato della mia carriera perché uno come Totti non esisterà mai più. Fu un momento dal grande impatto emotivo, perché subisco il fascino di Francesco come nessun altro. Mi ritorna in mente la chiamata con Fabio Caressa, io che prendo posto davanti alla telecamera, pronto per dare una notizia che avrebbe sconvolto il calcio mondiale».
Non solo campioni, presidenti: Trigoria ha avuto modo di raccontato tanti personaggi...
«Come Fabrizio Mortadella, uno storico tifoso. Dentro ogni contestazione o evento di festa, c’era lui. Ricordo quando venne a trovare Giannini in un momento di crisi. Fece un giro in macchina con lui e gli fece tornare il sorriso. Oppure quando, con il consiglio d’amministrazione della Roma al completo, entrò in pantaloncini dicendo: “Ahò, aricordateve de fa er bene della Roma”. Tante contestazioni poi, anche al presidente Viola quando ebbe l'idea di riportare in giallorosso Cordova. E Viola capì che non si poteva presentare con un acquisto simile. Trigoria è per questo motivo un posto che ha un’anima tutta sua e non un semplice luogo».
Quanta distanza c’è tra il Paolo inviato e il Paolo di tutti i giorni? O quanto la tua essenza è stata da sempre il tuo biglietto da visita?
«Il mio lavoro non m’ha mai cambiato, è molto importante rimanere se stessi. I rapporti nascono e muoiono in maniera naturale, non c’è da rammaricarsi se con un allenatore non nasce la giusta empatia. Sono cambiato in questo senso, negli anni l’esperienza mi ha aiutato a capire che l’empatia non si può controllare. I rapporti tra cronisti e tesserati nascono in maniera del tutto incontrollabile».
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