Da Minà è tutto
Da Fidel Castro a Muhammad Ali, da Mennea fino a Diego Armando Maradona. Se ne va il giornalista che meglio sapeva raccontare i grandi del mondo
A cena con Robert De Niro, Sergio Leone e Muhammad Ali. A casa di Fidel Castro, in carcere da Silvia Baraldini, negli spogliatoi con Diego Armando Maradona, in pista con Pietro Mennea, in studio con Gabriel Garcia Marquez. E poi in Curva Sud (il posto più bello del mondo) a intervistare i ragazzi del Commando Ultrà. E poi basta, perché sennò non solo finisce il pezzo, ma anche il giornale. Gianni Minà, scomparso ieri a 84 anni dopo una malattia cardiaca, è stato il giornalista italiano che come nessuno è riuscito a raccontare i più grandi, in ogni campo (sport e cultura soprattutto), della sua epoca. L’ha fatto senza necessariamente mettere da parte le sue convinzioni, che erano note, dimostrando quindi che conoscendo la correttezza e la deontologia si può sia rimanere se stessi sia ottenere la fiducia di chi si crede inarrivabile. E inarrivabile è e sarà lui, perché i tempi probabilmente non consentono a un eventuale nuovo Gianni Minà di sapersi esprimere come ha fatto lui.
La sua carriera è ricordata da tutti in queste ore, è a disposizione di tutti da wikipedia in poi. Ha fatto dell’intervista televisiva un genere letterario. La serie di “Blitz”, andata in onda dal 1981 al 1984, andrebbe fatta vedere nelle scuole di giornalismo e non solo. Ha saputo essere garbato, ironico, scomodo. Firmò la prefazione di “Campioni senza valore”, il libro di Sandro Donati, censuratissimo, che ancora oggi andrebbe letto da chiunque ama lo sport e quindi odia il doping. È solo un esempio dei tanti che si potrebbero fare sulla carriera di un giornalista che ha spiccato per curiosità, capacità di racconto e coraggio. Con questi tre ingredienti ha segnato un’epoca e un mestiere. «Ti metteva a tuo agio e non avevi la sensazione di trovarti di fronte a un giornalista», ha spiegato ieri notte Adriano Panatta, che da giovane era molto più scontroso di quanto appaia oggi.
E Gianni Minà riusciva a trovare la chiave per sciogliere anche i personaggi più scontrosi e a trovare una chiave di racconto che piaceva al pubblico. Alla base, c’era la sua capacità di non giudicare l’interlocutore.
Ha iniziato con lo sport (era tifoso del Torino), ha saputo spaziare tra letteratura, musica, cinema, cultura. Ha amato il Sudamerica, cui ha dedicato una parte importantissima della sua attività editoriale. Un Sudamerica sempre in lotta, contorto, a volte drogato, non sempre vero. Lui ci ha scavato, l’ha vissuto e raccontato.
In Sudamerica andò nel 1986 per la Rai. Doveva raccontare i potenziali protagonisti del Mondiale del 1986. Tra loro, anche Paulo Roberto Falcao, che dopo aver lasciato la Roma giocava nel San Paolo. Minà guardò San Paolo-Fluminense e Falcao gli disse: «Ti va di accompagnarmi a Porto Alegre?». Sul pullman, Falcao gli parlò del calcio, del Brasile, e molto della Roma. Finché i due non si ritrovarono nel Palazzetto dello Sport di Porto Alegre per una rimpatriata con i suoi ex compagni di squadra nell’Internacional e sul terrazzo di casa mentre il Divino palleggiava col nipotino. Falcao gli raccontò degli amici d’infanzia che lo chiamavano “Bola Bola”, accompagnandolo nel quartiere della sua infanzia. Anche nel 1986, lo chiamavano ancora così. Lo abbracciavano, come se fossero bambini, e quegli abbracci vanno visti, non si possono raccontare. Forse solo Minà saprebbe farlo, come fece all’epoca mentre Falcao finiva a giocare una partitella per strada, con gli amici di un tempo.
«Io non ho fatto mai niente per impormi - gli disse a un certo punto - a un certo momento mi sono semplicemente accorto che i miei compagni avevano molta fiducia in me». Questo ha dimostrato Gianni Minà, cioè come si può creare un legame di fiducia con le persone. Forse i tempi non consentiranno più a un eventuale nuovo Gianni Minà di potersi esprimere, ma finché ci saranno legami di fiducia tra le persone non ci sarà alcun tempo che potrà vincere sull’umanità.
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