Attilio Ferraris IV: nato per giocare a calcio
Nasceva 119 anni fa il primo uomo che vestì la fascia in giallorosso. Calciatore superbo e amante del poker e delle corse, con “Fuffo” un legame unico
Attilio Ferraris IV era un santo. Fumava. Appoggiava sempre le sigarette sul bordo del biliardo della sala Restaldi accanto a piazza dell’Unità e a chi gli chiedeva se poteva prenderne una rispondeva: «Nun rompe li cojoni e pijatela». Al biliardo si metteva sempre sotto la finestra «così vedo quanno fa giorno». Perché poi probabilmente aveva la partita della Roma. Giocava e spesso era il migliore in campo. Non tanto per la tecnica, piuttosto per la prestanza fisica, perché dava tutto, perché la foga agonistica impressionava compagni e avversari, pure se la notte l’aveva passata in bianco.
Pozzo una volta lo volle in Nazionale proprio per questo e andò a cercarlo quando era già il 1934 (il 15 aprile durante un Roma-Genoa non giocato): «Ma io fumo sessanta sigarette al giorno, commendato’». «Senta, Ferraris, la sua vita privata non mi interessa, ma in campo mi deve spaccare la palla». Come un segno della croce: il Ct aveva capito il miracolo che era Attilio Ferraris iv. Un’altra volta lo incontrò di notte nella hall del ritiro di Asti, Attilio se ne stava andando: «Ma come mai lei qui, Ferraris?», «Me so’ arzato presto». Apparizioni notturne. Una carriera solare. «Lo presi come una manna dal cielo», disse Pozzo, «non lo mollai più. E non me ne pentii mai». Nessun atto di dolore ma una manna dal cielo: anche la semantica è da santo. Lui giocava di notte e di giorno. Faceva le cose alla rovescia del senso comune («I suoi detti romaneschi stupivano i benpensanti dell’epoca», Fulvio Stinchelli). La rovesciata era il suo marchio di fabbrica, all’indietro a togliere il pallone all’attaccante. Che lui giocasse a mediano ve lo risparmiamo. Anche perché il suo vero ruolo era quello di giocare. Giocava. E basta. Accettava qualsiasi sfida. A calcio. A poker. Al casinò. La partita era la vita. Una volta a Marsiglia prese i dieci franchi che aveva avuto come premio-partita dopo aver sfidato la Francia con la rappresentativa dell’Italia del Sud e se li giocò tutti: dopo un’ora ne aveva vinti 510, dopo un’altra stava a zero: «Embè, è annata male». George Best “de noantri”? No, meglio: “er Più”. George Best non giocava a boccette, lui sì. E poi George Best mica è mai diventato campione del mondo, lui sì. È l’epitaffio della sua tomba al Verano: «Attilio Ferraris campione del mondo». Solo i santi al cimitero sono campioni del mondo.
Una vita al massimo
Ma non per questo Attilio Ferraris era un santo. Aveva coraggio. Era campione nel mondo della vita: la succhiava, roba da poesiuole da attimo fuggente. O chiacchiere da bar. Ne aveva aperto uno a via Cola di Rienzo, tanto per, un po’ convinto da Carpi un po’ da Sacerdoti. Sulla lavagna aveva scritto “Attilio telefona” per far sapere come erano andate le partite. Sennò c’era la radio. L’11 maggio 1930 con l’Italia vinse 5-0 sull’Ungheria, al quinto gol Attilio si fermò in mezzo al campo, gli si avvicinò preoccupato Meazza: «Cus te ghet? Te stet mal?». Lui rispose: «Sto pensanno si mi’ fratello se sarà ricordato d’accenne la radio ar bare...». Tu chiamale se vuoi preoccupazioni. Come quelle d’amore. Amava ed era amato. Una volta nel marzo 1932 con Bernardini, Fasanelli e Chini lasciò il ritiro a Torino il giorno prima della partita per andare a vedere Josephine Baker. Una questione di cuore, è solo seguendo quello che ha vissuto. Ma altro che pose. Verità d’appendicite più che romanzi d’appendice.
Attilio Ferraris ha vissuto da Attilio Ferraris ed è morto come e dove ha vissuto: sul campo, dopo un colpo di testa al 43’. Aveva quarantatré anni. Il cuore aveva battuto troppo. Prima di giocare quella partita a Montecatini fra vecchie glorie disse: «Nun me fate fa’ la fine de Caligaris». Umberto Caligaris era morto sul campo in una gara amichevole. Una battuta sul punto di morte senza neanche saperlo, col sapore della beffa, con lo spirito dissacratorio anche in quel momento almeno a rileggerlo adesso: una battuta sul punto di morte e così pure la morte è battuta. L’8 maggio 1947. Quel cuore aveva battuto tanto, sempre per la Roma. Ma non solo per questo Attilio Ferraris IV era un santo. Non è ancora il momento dell’addio. Anzi. D’altronde era nato e cresciuto a Borgo Pio, sotto San Pietro, con un prete, fratel Porfirio, che insegnava la vita ai ragazzini della Fortitudo. «Il biondino di Borgo”, il “Romanino”, “er Più” ha imparato per forza il valore della sincerità della strada, cioè perfettamente il sapore di Roma. Saliva e sudore sui sampietrini. Una volta a scuola venne cacciato perché la maestra di matematica aveva sbagliato qualcosa nel compito che aveva assegnato: era stato l’unico a farlo notare. E aveva ragione lui, non la maestra. Roger Waters avrebbe apprezzato, Francois Truffaut l’avrebbe fatto protagonista nei suoi 400 colpi. Attilio Ferraris ne aveva esplosi anche di più. Tutti a salve. Tutti in fumo. Tutti al gioco. Tutti per i suoi compagni, in campo così come in classe: il primo a dire «No, Signora». No dark sarcasm in the classroom. Teacher, leave those kids alone.
Il gran rifiuto
Il primo a dire no soprattutto alla Vecchia Signora. Pensate che questa storia è iniziata così. Da suo padre Secondo, che non era di Roma ma piemontese. Veniva dalla provincia di Biella, da un posto chiamato Sostegno. Estremo. Al figlio. Un dna che strilla. Attilio era già un fenomeno: a diciotto anni era in campo nella sfida Scudetto contro la Pro Vercelli, il 9 maggio 1926 aveva esordito in Nazionale (il 1 gennaio 1928 a Genova contro la Svizzera sarà il primo romanista della storia in Nazionale). A casa Ferraris bussano quelli della Juve, un avvocato per conto della proprietà torinese va da papà Secondo e gli dice che: «La Juventus, passata da poco nelle mani di Edoardo Agnelli, ha intenzione di chiamare agli onori della prima squadra suo figlio Attilio». Gli offre i soldi, tanti, qualcuno ha scritto mettendoglieli sul tavolo, chiedendogli solo di favorire il trasferimento o perlomeno di non ostacolarlo, sicuri che sarebbe stato così viste le origini piemontesi di Attilio, oltre al fatto che la Juventus era già la Juventus all’epoca. Appunto. E appunto adesso c’era la Roma. I padri hanno sempre il compito di cominciare un’altra storia: «Io non vendo mio figlio». Capito? «Io non vendo mio figlio». Come? «Io non vendo mio figlio». Punto. Può finire così il capitolo su Attilio Ferraris, anzi no, un Secondo, perché ci aggiunge che: «È vero, sono piemontese, ma ormai vivo a Roma da tanti anni che mi sono identificato in questa città al punto che non sono disposto a tradirla: i miei figli sono nati a Roma. Io non vendo mio figlio». Ssst. Zitti e tornatevene a casa. Teacher, leave those kids alone.
«Bravo, nazionale e capitano»
Figlio di Roma e basta Attilio. Bello romanino. Figlio di Roma e capitano. Anzi. Primo capitano della nostra storia. E se tu sei il suo primo capitano e così figlio di Roma, per forza gli altri so tutti fiji de’ na mignotta. Almeno quelli che ne parlano male o quelli che non lottano per lei. Una volta dopo un primo tempo giocato male col Casale, Attilio glielo disse ai compagni: «A fiji de na mignotta, ve volete sveglia’!». Lui era sempre sveglio. AS Roma di giorno e notte. So’ detti romaneschi, i suoi, che hanno marchiato i nostri per sempre: «Chi se ritira dalla lotta è ’n gran fijo de ’na mignotta, chi dalla lotta desiste fa ’na fine molto triste». Lui proprio non sapeva non lottare. Lui la fine non la voleva conoscere. Una volta e proprio quella volta del 5-0 contro la Juventus a cui aveva già detto no ancor prima di poter dire qualsiasi altra cosa, Cesarini mise ko Fasanelli, ma non Ferraris che venne espulso anche se era nel giusto. Lui, non l’arbitro. Espulso da Roma-Juve 5-0 che in quel momento era ancora 2-0. Non poteva essere, qui dietro c’è una storia di Sostegno e amore per la Roma. Ferraris non se ne vuole andare dal campo, lo tirano via ma lui si piazza con la testa fuori dalla buca di Testaccio. Non voleva andare negli spogliatoi dove, dopo la partita, lo aspettavano tutti gli juventini. Finita la gara, Bernardini scrisse una cosa per la «Gazzetta»: «Domenica sera sono stato a salutare i giocatori della Juventus. Mi sono intrattenuto con Combi e con il dirigente Gola: ho parlato con Orsi, Rosetta e Varglien. Con gli altri è stato impossibile scambiare anche il semplice saluto. Erano eccitati e gridavano tutti contro il mio compagno Ferraris. Non ho la minima idea di difendere il mio capitano per la semplice ragione che questi non ha mancato: il football si gioca con il cervello e con i muscoli. Nel duello Ferraris-Orsi, a parità di intelligenza, ha vinto il più forte. Come nella vita, in fondo».
L’amicizia con “Fuffo”
In fondo ci siamo scordati di dire perché Attilio Ferraris era un santo, come se non bastasse tutto questo. Credo che a Sergio Leone non abbiano mai raccontato la storia di Attilio Ferraris IV e di Fulvio Bernardini, altrimenti quel capolavoro totale di C’era una volta in America l’avrebbe girato a Testaccio, solo che i protagonisti sarebbero stati due Noodles (il personaggio «buono», l’amico fedele, interpretato da Robert De Niro). Come in quella fascia di capitano passata e ripassata di braccio in braccio, la storia dell’uno parla per forza dell’altro. Il miglior racconto possibile che si può fare di Attilio Ferraris l’ha fatto Bernardini, il miglior racconto possibile di Ferraris lo puoi fare parlando di Bernardini. Al fondo del fondo, nel cuore della storia della Roma, c’è una bellissima storia di amicizia. Iniziata per strada quasi cent’anni fa e che durerà finché uno la racconterà. È il 16 aprile del 1919 a Roma. Fulvio Bernardini sta sul tram diretto verso la Madonna del Riposo dove giocherà con l’Esquilia contro la Fortitudo. Attaccato letteralmente al tram (ma in bicicletta) c’è Attilio Ferraris, lui giocherà con la Fortitudo contro l’Esquilia. Giocano. Ferraris segna il primo gol della partita, a Bernardini che sta in porta. Invece di una rivalità nasce l’amicizia. È a fine partita che Attilio chiede a Fulvio: «Perché non vieni a giocare con la Fortitudo?», perché Bernardini dovrà fare altre strade per fare la storia della Roma. Ferraris e Bernardini faranno tutto insieme, saranno compagni alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928 («ma non si può raccontare quello che abbiamo fatto con Attilio lì»), saranno compagni di scazzottate in una trasferta a Napoli, compagni in fuga da qualche ritiro, compagni fuori, compagni in campo per la Roma. Nemmeno la cosa più brutta da immaginare intaccherà la loro amicizia, e nemmeno la fede di Attilio, anzi è di fronte al passaggio di Ferraris alla Lazio che Bernardini dimostrerà cos’è quel sentimento che li lega, e che ci lega, e che presto riporterà Attilio a casa.
Un bacio in fronte
È l’11 marzo 1934, la Roma dopo un quarto d’ora di gioco sta battendo 3-0 la Lazio: gol di Bernardini, Costantino e Guaita. Pare tutto giusto e normale, come già tradizione vuole. Poi però finisce 3-3 e la cosa non va giù soprattutto a Sacerdoti. A fine partita il presidente si infuria con la squadra e in particolare col capitano; il confronto è duro, aspro, e porta alla rottura. Ferraris non giocherà più. Per ripicca, per altre necessità, andrà dall’altra parte. Il 18 novembre 1934 (quattro giorni dopo la gara di Highbury) il ritorno a Testaccio con gli «altri» contro la sua Roma. La reazione dei romanisti è quella più logica e sentita: fischi. Amore e rabbia. A quel punto Fulvio Bernardini si avvicina a quello che considerava un fratello, e in mezzo al campo, davanti a tutti, prende Attilio per la testa e se lo bacia in fronte. Applausi. Non più fischi, ma applausi. Roma. Dopo due anni sbagliati alla Lazio, un passaggio al Bari, Attilio tornerà alla Roma. Così doveva essere, così era giusto, così era santo. Il direttore sportivo Vincenzo Biancone lo vide in mezzo ai tifosi a Testaccio a vedere la Roma. Ferraris stava lì con i tifosi della Roma a vedere la Roma. Gli mancava la Roma. Gli mancava troppo la Roma da andare a vederla senza farsi vedere.
La nostalgia, il senso della storia, la necessità di «mondare» qualcosa forse, fatto sta che Biancone convince il presidente Betti e riporta Attilio a casa. Nel 1938 Attilio Ferraris IV torna a essere quello che è sempre stato: romanista. Chiuderà a Catania e lo farà alla sua maniera: troverà il modo per pagare gli stipendi ai suoi compagni di squadra che – come lui – non li percepivano. Questo era il cuore di Attilio Ferraris IV, un uomo morto come ha vissuto: sul campo. Mettendoci la faccia e l’anima, esponendosi sempre in prima persona, dando tutto anche quando non poteva, privilegiando la purezza di un sentimento a fronte di qualsiasi altro ragionamento. Magari sbagliando, ma amando, donando anche quando aveva bisogno lui di avere. Un mattatore, uno spaccone, lo spirito “stradarolo”, un pilastro dell’anima romanista. Una dna che urla. Amava la Roma e la maglia della Roma, e anche per questo le regalava ai ragazzini, soprattutto a quelli di Borgo: per la Befana li riempiva di regali. Amava i bambini perché lui Figlio di Roma, figli non li ha potuti avere. Una volta alla sorella disse, ovviamente scherzando ma con una vena malinconica: «Mo’ te ne porto via uno». Figlio di Roma che donava la bandiera. Regalava la maglietta giallorossa ai Figli di Roma come lui. Quando morì non c’era più una sua maglia, allora Fulvio Bernardini ci mise la sua sulla bara. Un altro modo di baciarlo in fronte. Per sempre.
Poi trent’anni dopo, nel 1975, scrisse queste parole: «Caro Attilio, nel leggere la storia della tua vita mi sono convinto che la morte è ingiusta, almeno quando si perde uomini del tuo stampo... Che tu abbia fatto una grande carriera nel calcio era scontato; che tu piacessi alle donne tutti se ne potevano accorgere alla prima occhiata; che tu fossi abile al biliardo e al poker se ne accorgevano quelli che si volevano misurare con te in quei passatempi. Ma l’uomo vero, l’uomo coraggioso, l’uomo generoso era riservato a una ristretta cerchia di amici e io vi ero compreso, anzi privilegiato perché ti ero vicino la domenica sul campo, insieme a Masetti, De Micheli, Bodini, D’Aquino, Degni, Fasanelli, Chini, Volk, Lombardo e Costantino. I miracoli di altruismo che ti ho visto compiere negli anni della nostra bella amicizia sono tanti, e per raccontarli ci vorrebbe un libro su di te. Per quel disprezzo per i tuoi personali interessi e per l’amore che portavi agli altri, io dico che eri un santo».
È per questo che Attilio Ferraris era un santo: per la parola di un amico.
(tratto dal libro “Figli di Roma, capitani e bandiere”)
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