Ognuno ha i soci che si merita
E allora ditelo che ai poveri juventini volete male. Ci mancava Moggi adesso a certificare la correttezza del comportamento di Andrea Agnelli in tutti questi anni...
E allora ditelo che ai poveri juventini volete male. Ci mancava Moggi adesso a certificare la correttezza del comportamento di Andrea Agnelli in tutti questi anni... Ma chi glieli sceglie a questi gli autori? Non bastavano le figuracce che stanno emergendo in queste settimane, in questi mesi, in questi anni, in questo secolo e pure nel precedente? Con una continuità di balordaggine che ha preso in contropiede (non a caso, lo stratagemma tecnico più utilizzato dai più celebrati tra gli allenatori zebrati) solo i più ingenui tra gli osservatori neutrali, la dirigenza juventina ha appena riconosciuto, attraverso l’esercizio delle dimissioni (forzate), l’inadeguatezza anche del gruppo di lavoro che era succeduto a quello fermato dai tribunali dopo lo scandalo di Calciopoli del 2006, in attesa ovviamente che anche in questi caso si esprimano i magistrati. La continuità è una questione di sangue, del resto. Lo ha ricordato persino Moggi ieri, nel suo sconclusionato intervento all’assemblea degli azionisti: «Io ho seguito il lavoro di Andrea perché conoscevo bene la famiglia». Sì, il padre in particolare, Umberto, che era quello che lo aveva voluto nel ruolo di direttore generale della Juventus. In un impeto di raffinata ironia, il più smaliziato dei fratelli Agnelli, l’avvocato Gianni, aveva definito lo scudiero di Umberto, allora fresco di nomina, «lo stalliere del re, quello che deve conoscere tutti i ladri di cavalli». Moggi lo prese per un complimento.
Ieri, quasi trent’anni e una quindicina di condanne dopo, all’assemblea degli azionisti il povero ex ferroviere («capostazione» si vantava lui, ma non era vero neanche quello, a Civitavecchia lo sanno bene), applaudito da una platea entusiasta, ha rigettato ogni accusa per Andrea e ovviamente per se stesso, tornando ancora su Calciopoli: «La verità è che alla Juventus hanno rubato due scudetti, uno sul pantano di Perugia e quello vinto dalla Roma grazie al presidente del Coni che fece giocare Nakata a Torino». E giù applausi. Pover’uomo, che pena. E povero chi lo applaude ancora. Sarebbe ridicolo se ci mettessimo a ricordare ai finti smemorati che i magistrati della Corte Federale (composta peraltro da noti tifosi laziali) furono costretti a recepire la norma sull’allineamento degli extracomunitari agli altri stranieri (“comunitari”) dopo il ricorso di cinque società (tra le quali non c’era, peraltro, la Roma) che contestavano le non più eque regole federali. Roba di diritto, civile prima, sportivo poi. Espressa da corti, magistrati, tribunali. Consessi a cui il nostro è sempre stato allergico, dall’alto delle montagne di condanne che lo hanno relegato al ruolo malinconico di oggi. Un povero pregiudicato che abbaia alla luna.
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