AS Roma

Credito e campioni

La coda di questa prima parte di stagione inizia a far vacillare su Mourinho e i suoi ma il tecnico e la squadra dell’anno scorso, i big da ritrovare a gennaio lasciano la luce accesa

Paulo Dybala contro il Torino

Paulo Dybala contro il Torino (As Roma via Getty Images)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
15 Novembre 2022 - 17:54

Arriviamo allo Stadio convinti che serva una vittoria per mettere nel mirino il quarto posto. È questo quello che il tifoso della Tevere, con un certo disincanto, chiede. Perché un po’ di cose, va detto, nell’ultima settimana non sono piaciute. Non è piaciuta l’epurazione di Karsdorp, non tanto per la scelta in sé, quanto per la modalità («Se soo meritava, lo dovevi fa fori, ma non in conferenza stampa. Così rischi de spacca’ o spojatoio»); non è piaciuta la stoccata a Dybala («Nun poi di’ che gioca se o decide Scaloni e che se entra c’avrà la testa ar Mondiale»); non è piaciuta la battuta sul “mercatino” («Belotti, Dybala, Matic e Wijnaldum te l’hanno portati, e tutti l’avrebbero voluti»). Insomma, si avverte che la linea di credito, infinita, concessa dopo Tirana, si sia, ma solo in parte, esaurita. E che vi sia necessità che Mourinho ridia alla squadra quella solidità difensiva e quella velocità di gioco che, la scorsa stagione, avevamo visto a Bergamo, in un derby vinto facilmente tre a zero e nelle fasi finali della Conference («L’altr’anno er gioco suo s’è visto. Mo nun po esse solo corpa de Karsdorp»).  

La partita, però, una volta iniziata, ripropone il copione delle ultime giornate. Zaniolo è uno contro tutti («O spacca a porta, oppure fa a cazzotti co l’avversario»), Abraham ricorda il calcio da tavolo («O nun la struscia, oppure je sbatte addosso e va a tre metri, che manco ar Subbuteo»), Volpato sembra atterrato, per sbaglio, su un pianeta sconosciuto («Nun ce sta a capi’ niente»). Quando arriva il primo vero tiro in porta, dopo che il Torino ha dimostrato di fare la partita («So questi che stanno a gioca’ no noi»), sono passati già diciotto minuti. E quando, poco dopo, l’arbitro fischia il rigore, in molti lo prendono come un regalo della Provvidenza, perché come diversamente si possa non dico segnare, ma già solo arrivare in porta, rimane un mistero («Meno male, perché se c’è quarcuno che deve vince, so loro, no noi, che nun se lo meritamo”»; «Come poi vince, se nun riesci manco a tira’ ’na vorta ’n porta, quarcuno me lo deve spiega’»). Ma quel rigore viene revocato, ed il primo tempo finisce tra i fischi di buona parte della Tevere. Che, in una sorta di essere bicefalo, fischia tutto e tutti pur condividendo, appieno, lo striscione, apparso in Curva Sud, con cui si rivendica di essere un corpo unico con Società, squadra ed allenatore. E questo dà la misura di come ci sia ancora voglia di non abbandonare l’idea, malgrado i risultati ti mettano il dubbio di farlo, che, da qui a maggio, potremo dire ancora la nostra («Bastavano sei punti tra Sassuolo e oggi. Pure se ne fai quattro va bene lo stesso: le poi ripija tutte. E poi nun te scorda’ l’Europa League e la Coppa Italia»).  

Il secondo tempo inizia che peggio non si potrebbe. Prendiamo il gol con la palla che attraversa il campo dalla nostra destra a sinistra, per poi ritornare al centro dell’area con uno del Torino, più basso che alto, che la mette di testa come forse solo Pruzzo («J’avemo fatto fa n’azione da manuale. E noi lì a batte e mani»). E la rabbia e la delusione accumulate vengono sfogate al momento della sostituzione di Abraham, a cui vengono addossate le responsabilità di una squadra che non riesce non solo a rendersi pericolosa ma nemmeno a superare la metà campo («Ma come fa ’na squadra a gioca’ con ’na punta che nun segna e nun la fa sali’?»). E il divario, tra ciò che avrebbe dovuto essere e ciò che è stato, si amplifica con le giocate di Dybala che, in pochi minuti, evidenzia tutta la vulnerabilità di quel Torino. Ma qualcuno nota anche che, oltre a Dybala, la partita stia cambiando perché finalmente la difesa si sia messa a quattro, spostando Ibañez praticamente a fare l’ala sinistra («Sti du’ mesi li deve allena’ a gioca’ così, perché vedi come cambia tutto»).

L’arbitro ci mette del suo, ma non viene individuato come il colpevole («Lascia sta’ l’arbitro, er problema nun è lui»), perché la responsabilità, adesso, viene spalmata su allenatore e giocatori («Ce voleva così poco pe’ cambia’ sta partita? Mourinho perché ha dovuto aspetta’ così tanto? E questi perché se mettono a gioca’ solo adesso?»). Ma si sente, nell’aria, che la partita non verrà persa. E questa sensazione, fortissima quando l’arbitro assegna il (secondo) rigore, scema immediatamente quando sul dischetto si presenta Belotti («Lo sbaja: er portiere lo conosce, c’avrà mille pensieri ’n capoccia»). Detto, fatto. 
Ma la sfortuna di quell’ultimo quarto d’ora non aveva fatto i conti con Dybala e Matic. A riprova che la fortuna aiuta soprattutto quando in campo ci vanno i campioni. E a noi non è che manchino. Diciamocelo.

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