AS Roma

Ambetto europeo

Mentre altri vanno a giocare "la coppa dei perdenti", la Roma ribalta la sorte in 45’. Tutto cambia quando Zaniolo fa Zaniolo e l’arbitro ci pensa prima di fischiare a nostro sfavore

((As Roma via Getty Images))

PUBBLICATO DA Federico Vecchio, avvocato e scrittore
05 Novembre 2022 - 11:50

Quando arrivi allo Stadio, quegli altri stanno cercando il pareggio per non dover giocare la «competizione dei perdenti» (cit.). E lì, tra preoccupazioni e speranze, si avverte nell’aria che potrebbe verificarsi una nemesi. Noi, quelli che la «competizioni dei perdenti» (cit.) l’abbiamo vinta battendo il Feyenoord; gli altri, quelli che la «competizione dei perdenti» (cit.) adesso la devono non solo giocare, causa Feyenoord, ma la devono pure vincere. Se vogliono sperare di pareggiare. 

Si entra allo Stadio così, con, in aggiunta, la sensazione che, se una squadra, indubbiamente di qualità e ben diretta, sia arrivata terza nel proprio girone, la stessa sorte potrebbe toccare a noi, perché il Ludogorets ha giocatori tecnici e veloci, che potrebbero infilarsi tra le nostre linee, mentre noi, per segnare, dobbiamo aspettare l’allineamento dei pianeti. È chiaro che la vittoria di Verona ha dato entusiasmo, soprattutto perché ha lanciato nuovi (Volpato) e vecchi (El Shaarawy) protagonisti, che ci hanno ridato vitalità dopo la sconfitta con il Napoli («Totti, che ce capisce, a Volpato è annato a pijallo in Australia»; «Elsha deve da giocà sempre: è quello più ‘n forma»). Ma è altrettanto chiaro che la qualificazione non sia scontata («Stasera nun è semplice, perché quelli corono che nemmeno a Vallelunga») anche perché la paura di riuscire a tirare poco in porta è diffusa («Tik e tok, ma se nun tiri neo specchio er pallone, ’n porta, da solo nun ce va»). 

Si parte, tutto sommato, abbastanza bene. Loro iniziano, da subito, a far capire che la partita potrebbe durare, si e no, una mezz’oretta («Perdono tempo che nemmeno io quanno me devo tirà su dal letto la matina»). Noi, invece, sprechiamo un’occasione con Ibañez, che il nonno di un tifoso imprecisato, a detta del nipote, avrebbe segnato con facilità («Nun te lo poi magnà: manco mi nonno»). Ma si avverte che la partita stia diventando scorbutica. Perché, al di là delle giocate, solide e costanti, a tutta fascia, di El Shaarawy, davanti siamo poco precisi e poco cattivi. Mentre questi, palla al piede, ripartono dando sempre la sensazione di poter arrivare in porta («Così er go lo pijamo»). Detto, fatto. Si inventano il vantaggio, senza che nessuno dei nostri, tra centrocampisti e difensori, di fatto intervenga («Che speravano, che se fermava da solo prima dell’area nostra perché je finiva a benzina?»).  Il primo tempo finisce, così, tra i fischi. Ma finisce, anche, con la fiducia in Mourinho, perché «se l’ho visto io che tocca cambianne tre o quattro, ma subito, l’ha visto pure lui». 

Il secondo tempo si apre proprio con il segnale che Mourinho manda a tutto lo Stadio: ne cambia tre in un colpo solo, e la sensazione che possa, con quella mossa, sparigliare la partita risulta chiara già nel primo minuto, quando il pareggio stava lì, se non ci si fosse messo di mezzo il portiere, che tu adesso vedi se questo non si mette a fare il fenomeno («Tutti Buffon contro de noi»).

Ma la partita cambia davvero. E cambia soprattutto perché Zaniolo fa Zaniolo, e perché l’arbitro ci fa sentire, per una volta nella vita, come troppe volte si sono sentiti i tifosi delle nostre avversarie («Che bello avè ‘n arbitro che prima de fischiatte contro ce pensa. Nun m’era mai successo»). E quando loro segnano il gol del due a due, che mancavano quindici minuti alla fine, e lo Stadio ha sperato che Ibañez non si rialzasse più, e che l’arbitro, e il Var, ci dicessero che qualcuno lo avesse quantomeno calpestato, per farlo restare così, immobile, a terra, e così tanto a lungo da cancellare quella segnatura che non avremmo mai saputo se fossimo, poi, stati capaci di ribaltare («Nun se deve più rialzà. La deve restà. Fino a quanno er Var nun chiama l’arbitro»), questo è accaduto. E quel gol annullato è stata la nostra qualificazione. Perché, quando Zaniolo ha preso quella palla, che ancora stava nel soggiorno di casa sua, ed ha attraversato il campo fino a Viale dei Gladiatori, il convincimento che la molla di quella straordinaria cavalcata fosse stata legata a quel momento precedente era diffusa («Quel pallone, a Zaniolo, je l’ha passato er Var»). E, a quel punto, era chiaro che la pratica fosse archiviata («Nun ce ripijano più») e che Zaniolo fosse tornato Zaniolo («È er più forte del calcio italiano»), e che sarebbe bello se quest’arbitro ci arbitrasse sempre («Ma nun ce lo potemo avè pure quanno giocamo a San Siro?»). È andata così. E, per citare un mio carissimo amico, tifoso di quegli altri, alla fine abbiamo avuto, ma stavolta a vantaggio nostro, un “ambo romano”. E, per citarne un altro, addirittura “europeo”. Che sono soddisfazioni. Magari piccole. Ma pur sempre soddisfazioni.

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