L'amaro in bocca
La partita vissuta sugli spalti: alla fine il sentimento di delusione ha lasciato spazio alla fredda riflessione che la Roma non avrebbe potuto fare tanto di più
“Ma perché alzano la musica? La devono senti’ bene ’sta storia del Vesuvio!”. La voglia - irrefrenabile, va detto - di spiegare, anche a brutto muso, che ’sta storia del Vesuvio, oltre ad essere veramente povera di contenuti, rischia di farci giocare il derby senza la Curva, è enorme. E per fortuna che un altro abbonato evidenzia sia l’una che l’altra circostanza (“A me ’sta storia del Vesuvio nun me fa ride; e se stamo a da’ la zappa sui piedi”). Questo il siparietto che mi accoglie in Tevere. A quel punto, prima di iniziare, c’è da ricordare Francesco Valdiserri (la cui scomparsa è devastante e qui il silenzio delle parole nasce dall’impossibilità di trovarne di utili per descrivere lo sgomento e l’enorme voglia di stringere in un abbraccio la sua famiglia). Si inizia. I primi due minuti fanno subito capire quale sia il problema (“Questi corono e se la passano: sembra che so’ ventidue, no undici”) e la prima fuga di Zaniolo, che si trascina dietro palla e marcatore, è il segnale che l’arma, per noi, non può che essere quella (“Come la palla ariva, subito a Zaniolo: poi ce pensa lui”). Poi, però, a seguire, iniziano i problemi. Zaniolo, che pure ha il pallone sul destro (su per giù, sulla stessa maledetta mattonella di Osimhen), non calcia in porta, perché dal destro prova a portarsela sul sinistro. E lì parte della Tribuna si domanda, con una riflessione, diciamo, pacata, perché mai non abbia tirato di prima (“Deva da tira’! Nun è che è vietato segna’ i go cor destro!”). Piano piano, però, la partita prende una piega che piace poco. Loro provano a fare gioco; noi proviamo a scavalcare il centrocampo con lanci lunghi. E la Tevere non apprezza molto questo tipo di soluzione (“Er CONI ce deva fa’ lo sconto, perché er centrocampo nun je lo rovinamo”; “sembramo er Petrarca Padova”), mentre apprezza, e non poco, la prova difensiva, evidenziandone la solidità (“A a difesa la Meloni nun ce doveva mette Crosetto: ce doveva mette Smalling”). Si temono molto le giocate veloci di un Napoli davvero forte (“Questi giocano proprio a pallone e noi sembra che li stamo a guarda’”) e nell’aria, purtroppo, inizia a materializzarsi quello che poi sarà (“Nun ce pò pensà sempre e solo Smalling. Perché se ne sbaja una, questi stanno ’n porta”). Ma il primo tempo si chiude soltanto con lo spavento del rigore prima assegnato e poi tolto (“Irrati nun l’ha capito che Rui Patricio è ’n portiere vero, che mica lo passi facile”) e con la constatazione che Kim, con i piedi, sarebbe poco pratico (“Nun sa gioca’ coi piedi: hai mai visto ’n cinese che sa gioca’ bene a pallone?”), con pronta ed immediata individuazione, da parte di un altro abbonato, dello strafalcione geografico (“Nun è cinese!”) e conseguente, e disarmante, replica dell’osservatore calcistico di livello internazionale, che chiude il certame dialettico con un: “Vabbè, giapponese, ma pure quelli, tolto Nakata, nun so’ mai stati boni”.
Nell’intervallo, ai piedi della Tribuna, tra birra e panini, ci si divide tra chi ritiene che questa sia la tattica giusta (“Stamo a anna’ bene così: er go je lo potemo fa’”), e chi, viceversa, ritiene che la velocità del Napoli ci porterà guai (“Vanno a mille, e pure cor pallone. Se mettono Raspadori, che se move pe l’area, diventa ’n problema”). Ma la fiducia in Smalling e Rui Patricio dà serenità (“Nun sbajano, so’ ’na garanzia. L’importante è nun daje spazi”).
Il secondo tempo inizia come il primo. Il Napoli dimostra perché sia primo in classifica e noi perché siamo forti in difesa. Il centrocampo, con Camara (“Deve gioca’ sempre, è l’unico che accellera cor cambio de passo”) e Cristante (“È sempre bravo, che je voi di’”), è in sofferenza (“Perché c’avemo i quinti troppo schiacciati a difenne”) ma prova a chiudere, con fatica, ogni verticalizzazione avversaria. Arrivano, però, insieme all’unica azione in cui avremmo potuto segnare (“Con questi, se c’hai n’occasione, nun ta la poi magna’”), i campanelli d’allarme dei gol mangiati da Osimhen (“C’ha graziato”) e da Juan Jesus (“Ecco er motivo perché se lo semo vennuto”). Entra Politano (“È ’n giocatore vero. Magari torna a casa”), che imbuca per Osimhen. Il resto è, purtroppo, storia. E si deve guardare la realtà (“Ha fatto ’n gran go”; “Nun semo scarsi, ma semo questi”; “A gennaio, co’ Dybala e Wijnaldum, è n’antro campionato”). E si prova a guardare subito oltre (“Pensamo a giovedì”). Ma la delusione non è poca. E, per giovedì, ancora c’è tempo. Prima bisogna scrollarsi di dosso il peso di questa sconfitta. Che va capita, digerita e superata. E, quindi, quale modo migliore di chiudere la serata, uscendo dallo Stadio, con la fatidica domanda: “E n’do annamo a magnà, adesso?”.
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