Il sergente Mourinho unisce tutti i tifosi: dai grandi ai bambini
Lunedì prima della partita José a Marassi si è fermato a lungo con piccoli aspiranti calciatori che non dimenticheranno mai l'incontro con lo Special One
Dici. È faticoso frequentare i bambini. Hai ragione. Aggiungi: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, scendere, piegarsi, farsi piccoli. Ti sbagli. Non è questo l’aspetto più faticoso. È piuttosto il fatto di essere costretti a elevarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Di stiracchiarsi, allungarsi, sollevarsi sulle punte dei piedi. Per non ferirli. (cit. Janusz Korczak).
Bellissima, nella sua verità, questa citazione. Dedicata ai genitori, ma non solo. E la ricordi in un’occasione come tante. Una partita di pallone. Dove un “sergente di ferro”, simpatico, antipatico, comunque non sempre facile da capire e accettare, regala un gesto che, ai più, può sembrare banale. Lo ha fatto lunedì sera a Genova, José Mourinho.
All’ingresso in campo delle squadre, quando un gruppo di bambini, vestiti di tutto punto da calciatori, si presentano al saluto del pubblico. La storia del pallone è piena di carezze date dai campioni ai piccoli. Lo spazio di un secondo.
No, José lunedì ha fatto molto di più. Si è messo al centro di un gioioso gruppetto di fanciulli, a tutti ha dato il “cinque” e si è fermato a parlare con loro, ascoltarli, abbracciarli. Molto più di una semplice carezza sulla testa durante l’inno delle squadre. Quei piccoli non dimenticheranno. Quelle foto le conserveranno. Succede che un uomo di 60 anni, da sempre concentrato per quella che sarà la partita, con la voglia di vincere sempre, da vent’anni, scopre, o meglio mostra, una diversa dimensione. Certo, in panchina sarà quello di sempre. Taccuino e appunti, richiami ai suoi che sbagliano, aspre polemiche con avversari e arbitri. In quei 90 minuti di una partita è il Mou di sempre.
Ma quel lungo abbraccio dato a tutti i piccoli, un per uno, quel mettersi al loro livello, a quello delle loro sensazioni ed emozioni, ci ha riportato a pochi mesi fa. Al giorno della conquista della Conference League. Lui, che conserva gelosamente 26 trofei vinti in carriera, quella sera ha fatto un qualcosa che ci ha mostrato il nuovo Special. Subito dopo il trionfo, nonostante l’abitudine a questi momenti, ha lasciato la scena ai suoi ragazzi che ballavano come bambini sotto la curva dei tifosi romanisti. Ma non solo.
È uscito dal campo asciugandosi le lacrime, offrendo al mondo collegato in diretta via satellite, un’altra faccia di José. Lui che ha vinto tutto, emozionato come un bambino che riceve ciò che ha sempre sognato. E quello che per un anno ha sognato, lo ha lasciato a suoi ragazzi. Ragazzi nella loro felicità. Un po’, come quelli ai quali lunedì ha regalato un lungo prepartita.
Ha raccontato, in recenti conferenze stampa, di essere cambiato. Ma non per la carta d’identità, non perché i sessant’anni ti fanno più emotivo. No, ha detto più volte che venire a Roma, lui che conosce ogni angolo, Paesi e stadi di mezzo mondo, gli ha fatto scoprire un’altra faccia dei sentimenti. Quelli di una città, dei suoi tifosi così innamorati e forse unici. Roma.
Evviva José, “sergente di ferro”, che dopo 20 anni si lascia andare ai suoi sentimenti più profondi. Senza freni inibitori. Non di allenatore. Di uomo.
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