AS Roma

Ciao Tirana, io non ho dimenticato niente

Il racconto di Tommaso: un semplice tifoso che più di 4 mesi dopo la vittoria in Conference ripercorre per noi quell’indimenticabile sera del 25 maggio

La Roma alza la Conference League (Getty Images)

La Roma alza la Conference League (Getty Images)

PUBBLICATO DA Tommaso Tummarello
05 Ottobre 2022 - 12:02

5 maggio 2022: la Roma batte il Leicester per 1-0 e sbarca per la terza volta nella sua storia in una finale europea. 8 maggio 2022: mancano meno di 3 settimane alla finale. Da gennaio sto svolgendo un tirocinio full-time settimanale e questo mi impedisce di seguire i corsi in presenza all’università. Chiamo il mio amico Tommaso per farmi inviare tramite e-mail la videolezione di Macroeconomia da lui registrata. Accendo il Pc e in modalità predefinita sono nella categoria “Tutte le e-mail” e non “Posta in Arrivo”.

L’e-mail

«Ti è arrivato il file della videolezione, Tumma?». «Eccolo, sì, dovrebbe esse… aspetta un secondo Tommi, ti richiamo tra un attimo». L’occhio cade sulla mail immediatamente sottostante. «Complimenti per essere uno dei fortunati vincitori del biglietto per la Finale». Mi paralizzo, è un connubio di emozioni, l’insperata opportunità, il sogno che si fa concreto. Non avevo mai immaginato una nostra finale europea, figuriamoci vederla dal vivo. Impulsivamente chiamo mio padre e gli amici del gruppo stadio. Nessun altro è stato estratto, solo un amico in comune con un altro gruppo quindi lo contatto. Si chiama Filippo. Si va quindi a Tirana. Ormai è solamente un conto alla rovescia, un accrescersi dell’ansia. Una partita da dentro-fuori, catartica. Per un attimo penso: «Stavolta c’è lui in panchina», poi realizzo che potremmo entrare nella storia come l’unica squadra con cui Mou non ha vinto una finale. Il pensiero mi devasta. Il passato recente della Roma non mi aiuta. Si avvicina il giorno e non si parla più di una partita, si parla di un macro-ricordo che in ogni modo scandirà una parte della mia vita. Lo so per certo, tuttavia mi esalta e poi mi spaventa. È una finale, sarà la nostra finale.

Il gran giorno

25 maggio 2022: Alle 5 del mattino sono in piedi, non penso ad altro da giorni. Raccolgo le mie cose preparate la sera prima. Due panini, un caricatore, una mascherina, portafoglio, telefono e sciarpa della Roma da tenere rigorosamente in tasca fino all’ingresso dello stadio come suggerito dai Gruppi Romanisti. Non mi manca niente devo solo vestirmi. Guardo la maglietta che metto sempre per le partite fondamentali, bianca con centrale sul petto la figura di Totti nella sua ormai celebre esultanza dell’11 aprile 1999, la maglia  del “Vi ho purgato ancora”. Non so se metterla. Improvvisamente diventa una delle scelte più difficili dell’ultimo anno. A Tirana si legge di scontri ogni giorno e per tranquillizzare i miei decido poco prima di uscire di cambiare maglia. Bianca e arancione sia, senza riferimenti giallorossi. Tra me e me penso: «Se perdiamo, questa scelta non me la perdonerò mai» ma non torno indietro sulla mia decisione.

Lascio la maglia del capitano a Roma affinché vegli dalla capitale. Alle 6:30 passo a prendere Filippo, alle 7 brioche a Fiumicino e un’occhiata al volo al quotidiano Il Romanista. La copertina recita “Con tutto l’amore che posso”, non potevano esprimersi meglio. 7:50 siamo sul charter Romanista, compagnia aerea AlbaStar, non l’ho mai sentita ma basta che funzioni. Penso che, da appassionato giallorosso, il semplice volo d’andata sia stata un’esperienza speciale. Ho visto occhi colmi di speranza, ho visto smorfie segnate dalle delusioni e ho percepito le cicatrici dell’uomo seduto accanto a me mentre raccontava il suo Roma-Sampdoria del 2010, di come il suo cuore si scheggiò ma, nonostante ciò, lui fosse sul volo diretto a Tirana per amore, per ciò che per lui e per noi rappresenta la Roma. Un sentimento che ci fa sentire vivi, dei colori con cui ci identifichiamo e soprattutto un mantra che accompagna ormai la squadra dall’inizio dell’anno “Non mi stanco mai di te”. È la frase che canto sempre più forte rispetto alle altre. Racchiude quella che è per me la potenza di una passione. Potrà succedere di tutto ma poi per me non sarà successo niente. Farà male, ma non sarai mai in grado di gioire se prima non avrai fallito. È il cinico segreto della felicità.

Tutti sperano, nessuno sa

L’atmosfera è tesa ma l’impressione è che ognuno voglia stemperare la tensione a modo suo. C’è chi chiede una Peroni alle 8 di mattina, chi condivide ricordi dei derby vinti, chi sostiene di avere il diritto di fumarsi una sigaretta durante il decollo e chi invece analizza al dettaglio le statistiche del Feyenoord affinché possa avere una vaga idea su come imposteranno la partita. La verità è che nessuno lo sa, né vuole saperlo. Alle 10:35 sono al Grand Park of Tirana dove la UEFA ha predisposto la Fan Zone giallorossa cercando di tracciare un netto confine nella capitale albanese per evitare ulteriori pestaggi tra le due tifoserie. Fino alle 18:10 si canta, si recuperano le energie e si ritrovano amici, precisamente ad un bar che affaccia sul lago artificiale del parco. Il prepartita di dieci ore è sfinente. Il tempo scorre tra battute e birre mentre la tensione sale.

«Non ce stanno seats»

Parte la marcia verso lo stadio. Tra fumogeni e sciarpe si intravedono ragazzi, famiglie, bambini e tifosi senza biglietto venuti per seguire la squadra direttamente in Albania. 19:24: sono dentro lo stadio, e come recita il coro, mi vengono i brividi. Il mio biglietto estratto è sul lato tribuna mentre tutto il gruppo di amici creato nel prepartita è alle spalle della porta nella curva. Pochi indugi, un gran balzo per scavalcare la barriera e sono lì da loro, mi hanno tenuto il posto. Fino alle 20 siamo tutti in stato di trance mentale, io non so quasi che dire, mi limito a un “Mamma mia ragazzi” con tono soffocato. Afferro il telefono per leggere un sms, è mio papà. Scrive «Figlio mio, tu sei me in quello stadio. La tua voce sarà la mia voce, goditela e vinci». Non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi trasmesso la sua passione. Arriva un uomo sulla cinquantina, lo vedo dimenarsi tra la gente e fermarsi di fronte al ragazzo con cui sono partito la mattina stessa. Lo osserva e accenna un “Sir, sorry but this is my seat”. È gelo. E adesso come glielo spiego che forse farebbe meglio a spostarsi più verso la tribuna? Noi siamo in gruppo e soprattutto ci troviamo in uno stato d’animo delicato. Ci pensa un tifoso che fissandolo con sguardo tagliente sentenzia: “Vai va, che oggi qua non ce stanno seats”. Lo ringrazio della provvidenziale perentorietà.

Quelle lacrime d’orgoglio

20:35: entriamo nel vivo. Sottofondo musicale dei Chicago Bulls e annuncio della formazione di Matteo Vespasiani, la solita voce di casa nostra che chiude incitando: «Noi siamo la…?». «Roma». Grido forte, fortissimo, se non oggi quando. A seguire l’inno, da cantare tutti insieme. Non posso dimenticare quando, stringendo la sciarpa, mi sporgo a vedere la tribuna e intravedo una donna appoggiata alla vetrata che delimita la curva. Sta piangendo. Sono lacrime di orgoglio, di chi protegge un senso di appartenenza, di chi nella vita aspetta sempre una rivincita. Manca poco al fischio d’inizio e di fronte a noi viene celebrata la cerimonia d’apertura della finale. Ricordo solo l’istante in cui viene spiegato in tutta la sua estensione il telo circolare con il nostro stemma. Lo guardo e sorrido. Ripenso al percorso che ci ha portato fino a Tirana, immagino che il mondo ci stia guardando, sono riconoscente verso i miei calciatori. Chi tifa Roma non perde mai ma dentro di me so che quella è la nostra notte per vincere. Ingresso in campo dei giocatori, sollevo il cartoncino oro che formerà nella coreografia il numero 2 del 1927 su sfondo rosso pompeiano. Guardo solo Pellegrini. Ha un portamento distinto, da Capitano.

«Esploderà il settore...»

Inizia il match e le due squadre sembrano studiarsi. Al minuto 32 Mancini solleva lo sguardo e da oltre la metà campo alza il pallone per raggiungere Zaniolo dalla parte opposta. Trauner con la testa sfiora solo, Nicolò la controlla di petto al limite dell’area piccola e con il sinistro la scava quanto basta per superare il portiere della retroguardia bianco-rossa. Fiato sospeso, poi la rete che si gonfia. Esplode il settore giallorosso. Nell’esultanza sfrenata tra salti e abbracci il ginocchio del ragazzo alla mia destra si incastra nel buco tra lo schienale e il sedile dello stadio. Se ne preoccuperà qualche minuto dopo. Fine primo tempo non parla nessuno. L’inizio del secondo tempo è uno shock. Palo pieno dopo un minuto e mezzo e traversa al minuto 50 con annessi un paio di miracoli di Rui Patricio. Non realizzo a pieno ciò che è appena successo e per fortuna il tutto dura all’incirca cinque minuti. Per pochi centimetri siamo ancora in vantaggio. Quegli stessi centimetri che da sempre ci avevano traditi nelle partite da dentro o fuori. Ricordo la traversa di Kolarov ad Anfield, il destro di El Shaarawy a Roma-Lione, stavolta è diverso. Fino al minuto 89 ho ricordi sfocati. Sosteniamo la squadra e soffriamo con lei. Continuo incessantemente a guardare il maxischermo e il tempo sembra scorrere al rallentatore. Maledetta relatività. Poi la lavagna elettronica segna 5 minuti di recupero. Penso a quante volte sono stato beffato da quel recupero, non voglio immaginare cosa succederebbe se ci sfuggisse di nuovo tutto dalle mani a pochi secondi dal traguardo. Il cronometro sul maxischermo si blocca, non guardo più che ore sono, non metto neanche il timer sul telefono, non lo faccio mai.

Linssen, chi era costui?

Quel che succede dopo è illogico. Ogni tifoso della Roma è nella sua bolla psico-fisica mentre assiste ai cinque minuti più importanti della sua storia sportiva recente. Poi l’episodio mentre il cronometro segnerà 91:03. È la loro occasione sotto porta, il liscio di Bryan Linssen il cui cognome non verrà ricordato unicamente perché questa storia avrà un lieto fine. Vi confesso una cosa. Io quell’azione dannatamente pericolosa non l’ho vista. Avevo gli occhi lucidi. Non si tratta di assaporare anticipatamente una vittoria, sono nato Romanista non ne ho mai avuto il diritto. Si tratta di momenti in cui le emozioni si intensificano a tal punto da controllare inconsciamente il corpo. Attimi in cui l’irrazionale scavalca il razionale senza averne l’autorizzazione. Minuto 94 e 59 secondi, da dietro gridano che è finita. Vedo la panchina entrare in campo. È finita per davvero, abbiamo vinto noi, Roma ha vinto. Mi lancio istintivamente in un abbraccio con Filippo, stiamo piangendo entrambi. Poi rialzo lo sguardo e sono tutti a festeggiare sotto la curva, la gente attorno a me ancora non ci crede. Realizzo che ce l’abbiamo fatta. A quel punto mi godo la meritata vittoria tra festeggiamenti e cori. Il telefono lo prendo unicamente per qualche video e un messaggio a mio padre: «Grazie, ce l’abbiamo fatta».

Tutto in una foto

Tutto è un delirio di sensazioni inedite, penso «Ora che si fa? Si canta fino all’alba?». Grazie Roma, Roma Capoccia e così all’infinito in una notte di cui il cui ricordo sarà indelebile. Nietzsche scriveva «La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa». Ecco io quei momenti li ho voluti fortemente, li ho rincorsi con perseveranza. Scoverò sui social nei giorni successivi l’istantanea di un video registrato al fischio finale. A volte ritorno a guardare quel fermo immagine. È tutto racchiuso lì, siamo io (di spalle) e Filippo in primo piano. C’è l’emozione di aver raggiunto il porto col vessillo, la gioia di chi tutto questo lo aveva sempre e solo sentito raccontare, la leggerezza nel lasciarsi alle spalle le giornate amare. L’abbraccio di un amico, che aldilà di come evolveranno le cose, sarà per sempre stampato nella memoria di entrambi. La consapevolezza di vivere il momento, le braccia al cielo di un uomo sullo sfondo, la goliardia dei 20 anni, le lacrime di gioia, l’ardore di una passione. Per sempre.

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