Prova a prendermi
Il nostro calciomercato tra anelito al sogno e addestramento all’incubo, ma capita poi l’impertinenza della ragione: e cioè che un eroe davvero scelga la Roma
Un giorno uno psicoterapeuta delle collettività (ne esistono? Secondo me sì) dovrà dedicare uno studio specifico al rapporto che, da sempre, i tifosi romanisti hanno con la stagione, spesso per noi inquietante, del calciomercato, puntualmente vissuto all’insegna della spaccatura tra anelito al sogno e addestramento all’incubo. Il sogno: quello che qualche eroe, ma qualche vero eroe, ti scelga; intendo uno di quelli che chiunque vorrebbe avere dalla propria parte, e in genere tu sai che questi “chiunque” sono molto più strutturati di te sia dal punto di vista societario che sotto il profilo del prestigio sportivo, malgrado ciò lui, l’eroe da tutti agognato, sviando le logiche della realtà, che fa? Sceglie te! Proprio te! Ovvero me, noi, e decide di vestire i nostri colori e di battersi per quelli. Dopodiché, tutti a dover fare i conti con questa apparente incongruenza, noi per primi, stupefatti e felici, all’insegna del “così è”. Increduli per qualcosa che il pensiero si vietava di pensare quasi fosse un’impertinenza della ragione, o l’eccesso di una fantasia sin troppo ambiziosa. Per contro, l’incubo, assai più frequente e sperimentato (in materia, durante il decennio pallottiano avremmo potuto tenere corsi alla Sorbona) è sempre stato quello del saccheggio altrui operato in casa nostra, con una ribadita disponibilità a subire dolorose spoliazioni, e questo anche quando la stessa dirigenza non avrebbe voluto (Emerson, tanto per dire, che addirittura ha indotto il presidente Sensi all’implorazione! O Benatia! Ce lo ricordiamo bene: fra i più grandi sconforti di Walter Sabatini che si batté in ogni modo per evitarne la partenza; e poi Pjanic, per cui ho visto piangere mio figlio).
Così, tra illusioni e timori, finito il campionato, col frinire delle cicale, per me, romanista dapprima bambino, poi adolescente e di natura parecchio solinga, prendeva immancabilmente il via la scansione emotiva di un utopistico “Speriamo che arrivi!” contrastato dal più concreto “Speriamo che resti!”. Battezzato illo tempore al dolore (erano ancora gli Anni Sessanta) dalla mutilazione che mi privò del trio Spinosi, Landini e Capello, ricordo, anni appresso, confidare per mesi nell’arrivo di figure anche di secondo piano ma che, dichiarate come obiettivi di mercato, io mi intestardivo ad alonare di tinte iridescenti. Giusto per passarvi un ricordo decisamente vintage (i miei coetanei avranno un sussulto di amarcord; quanto agli altri, li rimando a ricerche su Google), vi basti dire che per un intero luglio, mortificando la mia estate di ginnasiale che avrebbe avuto di che divertirsi, ho vagolato taciturno lungo il litorale tirrenico, alla larga da ogni spensieratezza balneare, confidando che la Roma di Anzalone prelevasse dall’Atalanta il centravanti Magistrelli, desiderato allora (non vi sembri un paradosso) quanto, moltissimi anni dopo, ho spasimato nell’attesa che venisse ufficializzato l’acquisto dell’olandese Vanenburg, e allorché la televisione annunciò il suo inopinato rinnovo col PSV Eindhoven nemmeno mi azzardai a tentare un abbozzo di giustificazione per il repentino accasciamento di cui fui vittima e che tanto sconvolse la giovane donna da poco conosciuta e che di lì a poco avrei sposato. Con generoso affetto lei aveva saputo essere indulgente nei confronti dei miei umori alterni legati al campionato appena finito e a cui, secondo logica, supponeva che avrebbe conseguito un sano periodo di stabilità psichica. Macché! Come spiegarle che il calciomercato può esporre a turbe decisamente più inquietanti? Niente Vanenburg e il mondo si dissolve! Qualcosa di simile avverrà in un’epoca posteriore col mancato acquisto, dato per certo sino a poche ore prima, di Adrian Mutu, e di nuovo il mondo, nel frattempo restaurato, si disfece un’altra volta allo stesso modo della precedente e di tutte le altre affini.
Sul fronte, invece, delle gioie, la prima eclatante si data nel ’73, con l’arrivo dal Milan di Pierino Prati. Non una chiacchiera (di cui abbiamo sempre avuto un’estrema competenza), ma la verità. Sicché, a quanto pare, l’irreale a volte può essere contenuto nel reale! L’incredibile nel credibile! Un campione conclamato che veniva alla nostra corte; anzi, nel nostro cortile condominiale che lui d’improvviso avrebbe trasformato in una vera corte regale. Prati, nostro. Difficile crederlo, ma fu la verità. Sapore di Coppa dei Campioni. Di scudetti. Sapore del grande Empireo calcistico! Per 600 milioni, se non ricordo male. Anzalone, che non era riuscito a comprare Magistrelli, il cui teorico mito sarebbe stato tutto da inventare (e, alla resa dei conti, di materia utile allo scopo ne avremmo trovata davvero poca), ora ci donava un autentico alieno. Un grande che, per forza consequenziale, avrebbe portato con sé sporte di grandezza da offrire alla mia Roma. Sicché, a noi. Sicché, quasi personalmente, a me. Ebbene sì, Pierino Prati in giallorosso mi ha migliorato, ha dato un colpo di pollice alla mia natura, a quel che ero, e, dunque, anche un po’ a quel che tutt’oggi sono. Prati! Non un prezioso talento in boccio ambìto da molti, ma neanche il vecchio campione che viene a elargirti il romantico residuo della sua carriera. No: un fuoriclasse nel pieno della propria identità sportiva. E i fatti si videro. Poi, Pruzzo, che solo con noi, però, divenne davvero Pruzzo. Perciò, prima che arrivasse, fu certo desiderato, ma non bramato. Nel decennio successivo, un’altra gioia simile a quella legata a Prati: Voeller. Un amore interminato. Per onestà, non cito Falcao, struttura portante della nostra storia (e che per noi si è rivelato più di un giocatore: un clima, un clima di vittoria possibile sempre e comunque), ma che allora parve un pregiato ripiego con cui lenire il dispiacere per il mancato acquisto di Zico. E nemmeno cito Batistuta, magnificamente nostro per 70 miliardi, ma esageratamente tinto di viola (quanto struggente il suo gol a Toldo nella fase di avvio del campionato tricolore 2000/2001!), e soprattutto a rischio di rappresentare una puntata secca, del tipo: con lui o si vince subito, o mai. Grazie a Dio, andò come doveva, il resto lo si è visto: non fosse stato subito, non sarebbe stato mai. E da allora, tanti giocatori importanti: da Cassano a Salah, ma nessuno - almeno per me, nessuno - che sia arrivato con lo stigma di Paulo Dybala, giocatore che adoro da sempre, e che è quello che è, non quello che per lo più è stato, né la rosea ipotesi di quello che potrà essere! E quello che lui oggi è, non annuncia declino. Voglio dire che Dybala viene a darci il meglio della sua carriera, l’acme della sua maturità. Sfido ogni scaramanzia e mi avvento a profetizzarlo: il vero Dybala lo si vedrà qui, in giallorosso. Così come Mourinho a propria volta ci sta dando un tratto di sé che, fino ad oggi, era a molti sconosciuto: una sua forma di paternità carismatica capace di produrre senso di appartenenza, richiamo e coesione.
Vi rendete conto? Poter godere di un giocatore che per anni potrà plausibilmente essere pressoché sempre all’apice di un magistero calcistico impossibile da disconoscergli! Nemmeno con Nainggolan o Strootman, al momento in cui sbarcarono a Trigoria, avremmo potuto avere una simile certezza. Dybala lo vedevo giocare nel Palermo (e quante volte ho seguito le partite del Palermo solo per lui!) e mi dicevo: «Questo è il tipo di giocatore che soprattutto amo: uno che sa farsi incarnazione della partita nella sua interezza». Sì, un giocatore in grado di governare la partita in ogni sua possibile variante, così l’ho sempre valutato. Un’immagine, lo ammetto, che rischia di apparire astratta e poetica volendo invece rendere l’idea di qualcosa di molto sostanzioso. Altrimenti, a voler essere più chiaro circa quello che intendo definendo un giocatore incarnazione stessa della partita, mi tocca attingere all’enorme dando i numeri. Anzi, dandone uno: 14. Quindi, un nome. Un po’ esito, ma lo pronuncio: Cruyff. Lo so, la Joya non è lui, pero!… D’altronde, noi romanisti abbiamo avuto un capitano che per venticinque anni è stato più volte accostato all’olandese, ma non tanto, o non solo, per stabilire un criterio di eccellenza, bensì una peculiarità stilistica. Sarà un caso che ora, con questo straordinario arrivo, si parli addirittura, dopo cinque anni di preziosa messa da parte, di poter nuovamente vedere una maglia giallorossa in campo col numero 10 sulle spalle?
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