Malagò: "La Roma è la mia passione. Mi hanno proposto la presidenza due volte"
L'intervista al presidente del Coni: "Vedrò il derby di notte dalla Thailandia. Ho sempre auspicato l'accoglimento del progetto del nuovo stadio"
Entrare nell'ufficio presidenziale del Coni significa immergersi per un po' di tempo, sempre troppo breve, nella fantastica vita gialla e blu di Giovanni Malagò, 60 anni a marzo, ospitalissimo padrone di casa, viveur di ottime maniere, apprezzato gestore dello sport italiano, inesauribile raccontatore di aneddoti e perpetuo distributore di sorrisi, per come risponde agli amici al telefono («Cena fantastica ma ti potevi risparmiare quel blangé, non fanno per te ‘ste cose»), per la suoneria del cellulare che parte di continuo facendo scattare chissà quante volte al giorno l'inno nazionale di Mameli (come fa a non odiarlo, ormai?), per la sua capacità di cambiare timbro vocale di risposta al suo interlocutore (c'è quello formale, quello insolentito, raro, quello guascone, quello cameratesco, quello operativo), per lo spassoso menefreghismo con cui tratta i suoi collaboratori, per i richiami alle sue pazientissime segretarie, per le ripetute offerte a bere qualcosa e per l'obbligo a dargli del tu prima di cominciare l'intervista, non l'unica delle numerose affabulazioni che usa con gli estemporanei interlocutori che lo vengono ad intervistare, chiedendo ogni volta «scusa» o «permesso» per annunciare concetti che non richiederebbero l'una o l'altro, «ma per me l'educazione è tutto».
Lascia che si apprezzi il mobilio («Ho arredato queste stanze a mie spese, non reggevo i mobili di prima»), dà una sistemata ai suoi tredici evidenziatori gialli e poi parte con l'intervista, senza mai rinunciare a buttare l'occhio su Sky Tg 24. E comincia, forse inevitabilmente, dall'età.
«Non c'ho più il fisico. Sto per fare 60 anni, ormai la data è vicina: il 13 marzo, come Sebino Nela, Picchio De Sisti, Bruno Conti».
Come James Pallotta.
«Anche Jim, vero».
Romanista doc, si può dire.
«Certo, ci mancherebbe. E leggo tutte le mattine Il Romanista, nella mia mazzetta non manca mai».
Ci lusinghi, ma non saremo cattivi: il tuo rapporto con la Roma com'è?
«Ve lo dico, non è certo un mistero. Anzi. Qui si parla tanto di cultura sportiva, io ne sono un fautore. La cultura sportiva fa crescere il nostro sistema calcistico, se hai cultura rispetti l'avversario, l'arbitro, il commentatore, il giornalista, il tifoso tuo e dell'altra squadra. Io trovo penoso che chi ha cariche pubbliche o magari è diventato popolare che per non rischiare di perdere delle simpatie disconosca la sua squadra del cuore. Ovviamente questo non significa che tu non debba avere ancora più rispetto, in virtù di quella carica, verso dirigenti, tifosi, giocatori delle altre squadre. Personaggi di caratura mondiale non hanno mai avuto paura a dichiarare la propria fede, da Obama a Putin, o Conte e Salvini in Italia. L'importante è non essere faziosi o parziali, altrimenti è un disastro. Io non sono fazioso, questo mi viene riconosciuto da tutti».
Diciamolo, forse dalle parti di Formello non te lo riconoscono tutti.
«Ma no, non è vero».
Il comunicatore seriale Diaconale ti ha attaccato il giorno dopo in cui hai auspicato la presentazione del progetto della Lazio, dicendo che loro il progetto lo hanno già presentato. Anche se non risulta a nessuno.
«Dai, non mi trascinate in queste cose. Sono cose che possono accadere, ma in realtà con loro ho ottimi rapporti, ho un dialogo costante con Claudio Lotito... Vi garantisco che è impossibile trovare una mia dichiarazione in cui io non abbia auspicato l'accoglimento del progetto dello stadio della Roma accanto a una dichiarazione in cui chiedevo di portare avanti anche l'analogo progetto della Lazio».
Quando lo presenteranno, magari.
«Ma io faccio un discorso di politica sportiva, non faccio valutazioni su carichi urbanistici, autorizzazioni, cubature, piani di viabilità, i ponti, ecc. Io dico che non si può andare avanti così. Roma e Lazio devono avere le loro case».
E lo dici da gestore dello stadio che sarà abbandonato, quindi vale doppio.
«Certamente. Noi abbiamo due contratti importanti con le due società come affittuari e non sarà facile trovare dei sostituti con uno schioccar di dita. Ma non posso certo per un interesse di parte prescindere da quello che deve essere lo sviluppo di un sistema. Non sarebbe intellettualmente onesto. Se il nostro sistema non si mette in moto per aiutare tutte le società che ne fanno richiesta, non ci sarà alcuna possibilità di sviluppo e di competitività agli alti livelli a cui sono arrivati i principali club europei. O pensate che sia solo un caso che tutti i migliori club, nessuno escluso, vanti uno stadio di proprietà?».
Non è certo un caso. Con noi sfondi una porta aperta.
«Se penso che Manchester, con 600.000 abitanti, ha due stadi magnifici come Etihad e Old Trafford arrossisco. Ecco perché tifo affinché Roma e Lazio abbiano il loro stadio. E così tutte le altre società italiane».
Tutto giusto, non si capisce da dove derivi l'ostilità che ha impedito ancora a oggi alla Roma di poter posare la prima pietra.
«Nessuno meglio di me lo può sapere, se parliamo di ostilità. Anche noi avevamo un bel progetto per le Olimpiadi... Ma questa è una città dove è più complicato che altrove fare le cose. Per diversi motivi. E forse credo anche che francamente se adesso c'è la volontà politica dell'amministrazione di portare adesso avanti il progetto dello stadio, è stata rinforzata proprio dal no alle Olimpiadi. Non si può certo sempre dire di no. E peraltro alla candidatura non hanno neanche detto di no. Hanno invertito il sì che era già stato espresso. Perché noi eravamo già in partita. E hanno stracciato il contratto».
La lingua batte dove il dente duole. Da tifoso della Roma, ti piace almeno il progetto dello stadio americano?
«A vederlo sembra bellissimo, mi pare che tenga conto di ogni istanza».
E con Pallotta invece che rapporto intrattieni?
«Buono, in quelle rare volte che ci sentiamo. A livello istituzionale vedo e sento molto di più Lotito o altri presidenti, da De Laurentiis a Della Valle. Lui sta fuori, è più raro. Ma sento quasi tutti i giorni Mauro, ovviamente».
Baldissoni.
«Sì, soprattutto per le questioni dello stadio. Pallotta è a Boston, sarei più felice se venisse più spesso a Roma, lo dico da romanista e non da presidente del Coni, ma è una sua scelta che rispetto. Sono strategie aziendali e non c'è certo una regola fissa. In Inghilterra ci sono molti club di cui quasi non si conosce neanche il proprietario».
C'è stato anche un momento in cui qualcuno ti propose di diventare presidente della Roma.
«Più di una volta. Due volte, almeno, con proposte concrete».
Quando c'era già Pallotta?
«No, prima. Avevo dato la disponibilità anche come socio di minoranza, ma non si sono poi verificate le premesse».
Ti piacerebbe ripercorrere le orme di papà Vincenzo, storico dirigente romanista?
«Papà lo ha fatto per vent'anni, compreso un interregno da presidente al tempo di Ciarrapico. È la storia della mia famiglia».
Magari dopo il 2020, esaurito il terzo mandato se ti capiterà di ricandidarti, potresti pensarci: o presidente della Roma o sindaco di Roma...
«Vi dico come la penso: se nel febbraio 2019, qualcuno nel nostro paese riesce a fare progetti non solo a lungo termine, ma anche di breve-medio termine, secondo me è un incosciente. Ci sono talmente tante variabili che possono impattare in queste scelte che ogni discorso lascia il tempo che trova. Io sono molto strutturato e cerco sempre di tenere tutto sotto controllo. Ma sono anche molto fatalista, accetto molto il destino, altrimenti c'è il rischio di diventare pazzi. Farsi condizionare da quello che accade è da matti. Io ho sempre avuto possibilità importanti che mi hanno consentito di avere sempre nuovi stimoli. Forse sono stato fortunato, ma molte di queste opportunità me le sono andate a cercare».
Come questa di fare il presidente del Coni, forse l'opportunità più cercata di tutte.
«Prima dell'elezione ho fatto un anno e mezzo di campagna a spese mie per vincere una partita che tutti dicevano fosse impossibile. Ma ero convinto di riuscirci. E per farlo servono gli stimoli che sono sempre dettati dalla passione. Ecco perché ho rifiutato tante altre proposte. E qui invece sono un volontario».
Già, perché tu devolvi interamente il tuo stipendio da presidente in beneficenza. A quanto ammonta esattamente?
«Sono 90.000 euro annui. Devoluti interamente ad iniziative sociali e sportive».
E non ti passa mai la voglia?
«Mai. Volete sapere la mia giornata domani? Sveglia alle 5,30, aereo, Genova, macchina, 15 chilometri, inaugurazione di un campo di calcio realizzato grazie al Fondo Sport e Periferie, poi macchina, Milano, cena di lavoro con sponsor, la mattina dopo sveglia alle 5, Malpensa, aereo per Bangkok, no dico: Bangkok. E avete visto gli spazi aerei?».
In che senso?
«India e Pakistan hanno chiuso gli spazi aerei per un conflitto. Non so ancora dove mi faranno passare. Pazienza, ma sapete perché vado a Bangkok? Perché c'è l'assemblea dei comitati olimpici asiatici, e ci vado come rappresentante del Cio, per difendere la causa della candidatura Milano-Cortina di fronte ai miei colleghi del Cio, se non ci vado sembra che li snobbo. Sto 36 ore a Bangkok e torno lunedì mattina perdendomi il derby, la partita del torneo sociale con Francesco Totti, non sto con le mie figlie e con il mio nipotino, ma perché faccio tutto questo? Per senso del dovere e per la passione».
All'ora del derby dove sarai?
«Sette ore in avanti, saranno le 3 e mezza di notte di sabato, me lo vedrò nella mia stanza d'albergo a Bangkok».
Quanti derby ti sei perso in vita tua?
«È un conto che si può fare. Ho quasi 60 anni, da quando ho 6 anni li vedo, sono 54 anni, per due derby l'anno, fanno 108 partite, 120 se ci metto quelli di Coppa Italia, ne avrò persi al massimo il 10% perché magari ero all'estero o con 40 di febbre, quindi ne ho visti più di 100».
Ne hai uno nel cuore più di altri?
«L'ultimo 2-2 con la doppietta di Francesco. Incredibile quello che combinò».
E il primo?
«Non so se fosse un derby, ma mi ricordo un 3-1 con tripletta di Piedone Manfredini».
È scomparso da poco.
«Lo so, mi venne a trovare poco tempo fa. Lo premiai anche per il suo libro».
È stato uno dei tuoi idoli?
«Grande giocatore Pedro, ma ho avuto solo due punti di riferimento assoluti. Falcao e Totti».
Non lo vedresti bene Falcao alla Roma anche oggi?
«Paulo ha un'intelligenza superiore, è un uomo colto, elegante, sa di calcio. Ma in quale ruolo? Non saprei indicarlo. Certo, per una società sarebbe bellissimo avere grandi professionalità che sappiano anche incarnare la tradizione, ma sono due cose molto difficili da mettere insieme».
La sera di Barcellona la ricordi? Hai avuto una reazione istituzionale o ti sei lasciato andare?
«Lo dico con franchezza, da presidente del Coni mi sono autoimposto un aplomb che ho sempre rispettato, non metto neanche più la mia sciarpa. Poi dentro magari ribollo, ma anche questo non voglio che sia oggetto di speculazione. Fa parte del rispetto che si deve tenere».
E invece di Di Francesco che opinione hai?
«Lo dico con franchezza: sono un suo tifoso personale, lo stimo molto. Poi tutti sono criticabili. Lo fanno anche con Allegri che ha vinto tanto. Per me Di Francesco sta facendo un ottimo lavoro».
Tu sei anche un competente della materia, nazionale di calcio a 5, sei un critico o fai solo il tifoso?
«Io sono un maniaco competente di qualsiasi sport, faccio fatica a pensare qualcuno con cui possa confrontarmi se parliamo di conoscenza di diverse discipline. Ma il calcio lo conosco proprio a fondo».
E quando guardi le partite ti scaldi, se non ti vede nessuno?
«Vi racconto un aneddoto, così ne approfitto per ricordare un caro amico. Io vedo le partite tutte in casa allo stadio ovviamente, in trasferta vado meno tranne quando magari non riunisco qualche figlia per vedermi un Milan-Roma o un Inter-Roma o Juventus-Roma. Ma quelle che non vedo allo stadio le vedo, praticamente da una vita, a casa mia con venti persone, sempre le stesse. L'unico che non c'è più è Carlo Vanzina, mio grandissimo amico peraltro nato nel mio stesso giorno e per 35 anni abbiamo festeggiato il compleanno insieme. Questo sarà il primo anno che non potrò festeggiarlo con lui. Se penso a qualcosa che mi mancherà nel vedere le partite è proprio Carlo. E anzi, dedico questa intervista proprio a lui».
Quale altro personaggio conosciuto c'è in questa allegra combriccola?
«Carlo Verdone è fisso, Enrico Vanzina, Max Giusti e poi altri amici e professionisti meno conosciuti».
La passione per la Roma viene da papà Vincenzo?
«Trasferita naturalmente. Il rituale della domenica era paste al bar Euclide, la messa, il pranzo di corsa e poi in macchina con papà fino al nostro posto in tribuna Monte Mario».
A proposito di stadio, come Romanista abbiamo condotto una battaglia contro il caro prezzi perché il calcio sta perdendo la sua caratteristica di sport popolare, gli 89 euro di Barcellona-Roma sono stati insopportabili. A livello istituzionale si può fare qualcosa?
«Pazzesco, con me sfondate una porta aperta, ma nessuno può intervenire, neanche la Figc. Le società sono private, aziende a scopo di lucro, alcune anche quotate in Borsa. Io personalmente riserverei una quota di posti a prezzo assolutamente accessibile per tutti quelli che non si possono permettere di pagare di più, ma magari mi è facile anche dirlo».
Parliamo anche un po' di te? Sin dall'inizio della tua esperienza hai dovuto lottare contro un certo scetticismo, vuoi per i soprannomi che ti porti dietro, tipo Megalò, vuoi per l'Aniene e il mondo che hai sempre frequentato, ti è costata molta fatica affermarti?
«Devo dire che questa domanda me la fanno sempre meno, ma rispondo volentieri. La mia filosofia è chiara. Se qualcuno dà un giudizio o formula un'opinione su di me, mi chiedo sempre: mi conosce, mi frequenta, lavora con me? Se la risposta è sì, allora mi preoccupo. Ma se non è così, me ne frego. Che cosa devo dimostrare a chi non sa nulla di me? Così torno al concetto di prima, ognuno conservi le opinioni che vuole, e io le rispetterò».
Tra tutte queste foto in ufficio ce n'è qualcuna a cui sei particolarmente legato?
«Forse quelle dei miei labrador. Anche se qui ci sono tutti i miei affetti».
Vediamo molti 13 ripetuti. Le maglie sportive, quella della Roma, foto, disegni col 13. Ci sei affezionato per la data di nascita?
«No, quello ha solo rafforzato la mia idea. È che io sono uno scaramantico micidiale al contrario. A Capodanno a Sabaudia mi sono preso quattro giorni di riposo, un giorno ero in bici, un enorme gatto nero ha attraversato la strada davanti a me, e io ho sprintato pur di arrivare prima in quel punto rispetto a un'altra macchina. Penso sempre che quello che porta male agli altri a me porti bene. Non sopporto il conformismo, forse».
E se un giorno ti trovassi dodici evidenziatori gialli invece che tredici, te ne accorgeresti subito?
«Sì, perché li conto ogni volta che mi siedo».
E il giallo perché?
«Giallo e blu, combinati. Vedi, c'è sempre questo contrasto».
Sono anche i colori dell'Aniene.
«Esatto. Io trovo il blu il colore più elegante in assoluto. E per contrasto ci lego bene il giallo».
A Totti hai mai dato qualche consiglio da manager, vista la tua esperienza?
«Onestamente sì, mi è capitato, ma tengo per me quel che ci siamo detti».
Giovanni Malagò con Mauro Baldissoni @LaPresse
Lo vedi centrato nel suo ruolo?
«Sempre di più. Diciamo che la sua bella caratteristica è che non ha mai cercato di vendersi. Lui resta un timido, la sua forza è fare senza farsi pubblicità. Qui le apparenze contano più della sostanza, per lui è sempre stato il contrario».
E invece col Governo adesso che aria tira? Hai digerito ormai questa riforma del Coni?
«Dialogo e confronto quotidiani. Va meglio, certo, ma tutti sanno che per me la riforma è stata una cosa sbagliata e non giusta. Detto questo, io sono un uomo delle istituzioni, era indispensabile dialogare, lo stiamo facendo, ci rispettiamo reciprocamente per cercare le migliori soluzioni».
Hai cambiato idea pure sul nome "Sport e salute"?
«Io credo che se facciamo un sondaggio su 60 milioni di italiani difficilmente troviamo qualcuno a cui piaccia».
Il tuo sport preferito qual è?
«Dopo il calcio?».
Quindi il calcio.
«Dopo il calcio, diventa automaticamente quello in cui c'è un italiano che può vincere. Se io devo vedere, che ne so, la finale di Champions League Barcellona-Real Madrid, o la finale di Coppa del Mondo Brasile-Argentina, e magari posso vedere su uno schermo piccolo e in bianco e nero un fiorettista italiano che si gioca una medaglia, non ho dubbi».
Dal 2013 in poi o in assoluto?
«Dal 2013 un po' di più... E comunque da sempre seguo tutto quello che posso. Io andavo a seguire Benvenuti con mio padre o le gare di Mennea, sono stato presidente della Virtus, ho qui la foto dell'ultimo trofeo vinto, la Supercoppa Italiana».
È ora che torni in serie A la Virtus?
«Certo anche se questa sconfitta con Trapani non ci voleva. Vedete quanto sto sul pezzo?».
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