Il nostro "dietro le quinte" del 25 maggio: Tiran'aria molto Romanista
È già passato un mese. Una finale vissuta in doppia veste: da inviati e da tifosi in preda a un tumulto di emozioni. Il tempo sempre contro, ma lo abbiamo battuto
Notte fra il 25 e il 26 maggio, ore 0.28. «Chiudi tutto, adesso dobbiamo sbrigarci». Suona come una specie di sveglia. I pensieri extra-lavorativi messi in standby (con immane fatica) fino a quell'istante ricominciano lentamente a farsi spazio. Tre su tutti: 1) stiamo sognando?, prontamente stoppato dalla visione dei coriandoli sparsi sul campo; 2) strettamente correlato all'appena sbocciata consapevolezza delle tracce di festa: cazzo, abbiamo vinto; 3) decisamente accessorio rispetto ai primi due, eppure sensato per la nostra storia, ho appena scoperto il significato non metaforico di "senza un attimo di tregua". Il respiro manca davvero e a un mese di distanza (che di questi tempi equivale più o meno a un secolo. Che poi che c'avranno tutti da correre?) ancora devo capire se si trattasse di stanchezza o postumi da delirio. Anche perché una giornata simile si presenta come pezzo unico in una collezione pure ultracentenaria. Avete mai provato a estraniarvi dal vostro Io più profondo e sdoppiare quel turbinio di emozioni (ansia, paura, eccitazione, gioia, commozione, estasi) che vi frulla in petto, nel più composto dei sensi del dovere? No, eh? E se sì, scommetto che è stato per un tempo limitato: un esame, un colloquio di lavoro, un matrimonio (il vostro, ovvio). Ma riuscirci - o meglio, provarci - per 48 ore di fila sfida ogni centro di gravità. Anche non permanente. Altro che scissione dell'atomo. A noi è successo.
La sera del 24 il giornale chiude a tarda sera, più o meno in linea con le abitudini. Da Tirana arrivano notizie frastagliate su qualche disordine: si riapre la Prima, la tensione cresce, il sonno non vuol saperne di affacciarsi e quando ci prova dura poco. Poche ore e tocca avviarsi verso Fiumicino. I segni della notte poco riposante diventano solchi evidenti sul volto, eppure gli occhi sono spalancati. L'aeroporto brulica di gente come nelle ore di punta estive. Prima che i passi raggiungano il Terminal è l'udito il senso più sollecitato: il solito brusio spodestato da suoni più poderosi e man mano che ci si avvicina l'unplugged si trasforma in live. Siamo alle prove generali: i cori partono isolati, ma crescono in un battito di ciglia. Al check-in dei charter la fila è già chilometrica, ogni passo è un viso conosciuto che evolve in abbracci, aneddoti e saluti, anche traslati, agli amici dei conoscenti. In un attimo i lineamenti si distendono, i muscoli si rilassano, l'agitazione fa posto a cenni di sorriso. Incredibile come la condivisione di ricordi vissuti in modi, luoghi e con compagnie differenti ma con slancio affine, regali uno sprint improvviso all'intimità. Ecco cos'è «che ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo». Una sorta di comproprietà affettiva, che i miei trascorsi di Curva segnalano come graditissimo déjà vu.
Si parte (in ritardo): i propositi di recupero del sonno in volo sono subito spenti dai decibel del charter. Si ride, si canta e si atterra a Tirana che sembra un attimo, anche se l'orologio richiama alla realtà: già le 13.50. Siamo accolti - si fa per dire - da un caldo irreale, un'afa che fa rimpiangere i picchi romani di metà luglio. Fuori al piccolo scalo una serie di navette che dovrebbero portarci alla fan zone romanista. Immediatamente si crea ingorgo davanti alle porte dei primi, io ne scelgo uno un po' scalcinato e distante. Impiega una vita ad arrivare a destinazione, alla folle velocità di crociera di 35 km/h. Temo di aver sbagliato bus quando supera il parco adibito a punto di ritrovo e prosegue per qualche anno luce, fino a un parcheggio che mi appare dall'altro lato della città per quanto è lontano. M'incammino sotto un sole cocente cercando di scacciare i propositi di vendetta sull'autista, arrivo al famoso parco in condizioni pietose e chiamo Gabriele, cui avevo chiesto di aspettarmi per pranzo. «Siamo al ristorante, raggiungici». Ti pare facile. Nessuno conosce l'esistenza di questo posto, l'unica certezza me la regala - si fa molto per dire - il navigatore: altri tre chilometri alla meta. Quando la raggiungo, sembro appena uscito dalla sauna, mentre il tavolo dei miei commensali si gode l'aria condizionata e ostenta freschezza.
Allontano a fatica l'invidia e dopo pranzo si riparte: i miei colleghi in hotel, io verso lo stadio a ritirare l'accredito, poi di nuovo a marcia invertita per raggiungerli. Il mio contapassi è già arrivato a 18mila quando incrocio nuovamente Daniele e Gabriele nella hall. Pc aperti, ci accertiamo delle condizioni di Lorenzo, che è stato vittima di una disavventura e deve pure gestire la parte di redazione rimasta in Italia. Allarme rientrato: si tira un sospiro di sollievo, per lui ma anche un po' per noi. Il doppio piano (va necessariamente contemplata anche l'ipotesi più nefasta) studiato nei minimi dettagli non può permettersi mezzo ingranaggio mancante. Si lavora, il tempo di una rapida rinfrescata e di nuovo siamo in marcia verso lo stadio. La polizia albanese ci intima però di fare il giro dell'impianto: siamo sul versante olandese. Eseguiamo e ci disponiamo al di qua delle transenne, attendendo il lungo flusso giallo e rosso. Un fiume che scorre lento ma imponente e quando libera le onde sonore i brividi ci vengono sul serio. Ma tocca entrare: la tribuna è piccola e maledettamente vicina al settore di tifosi del Feyenoord. Mi stacco per seguire più da vicino il riscaldamento dei nostri, azzardo un selfie ma la tensione si taglia a fette perfino in foto e torno al posto. Fumerei un pacchetto ma le sigarette sono vietate (fosse stato per me avrei avviato una crisi diplomatica: lasciateci in pace coi nostri vizi almeno in momenti simili). I primi minuti sono di sofferenza pura, poi la Roma si rianima ma noi ancora no.
Perlomeno finché Zaniolo non ci fa esplodere. Per un attimo entro in crisi mistica e per fortuna i delegati Uefa sono lontani, ma quando riprendo i sensi vedo Gabri in fermo immagine. Col dorso della mano busso alla sua spalla più forte di quanto vorrei: «Oh, abbiamo segnato». Lui è rapito dal monitor che segnala un check del Var in corso, ma non si scioglie nemmeno quando appare la scritta "over". Rido, anche se credo più per quella surreale mistura di gioia e tensione che per la scena in sé (resta comunque la mia personale locandina della finale). Nell'intervallo provo a riordinare le idee per scrivere le pagelle più facili e insieme difficili di sempre. Ma sono bloccato, come al liceo di fronte alla traccia di un tema privo d'ispirazione. Butto giù qualcosa in pagina senza grande convinzione, mentre i minuti sembrano non scorrere mai. Ma siamo agli sgoccioli. Il doppio palo olandese mi ha fatto tremare e al tempo stesso restituito fiducia.
Mi volto a guardare i miei colleghi: trasfigurati dalla trepidazione. Tutti dalla stessa parte ci troverai. «Quanto manca?». «Troppo». Mourinho si agita con tutta la panchina al seguito, i ragazzi in campo raccolgono i residui di energia non si sa da dove e resistono. Ancora e ancora, nei 5 minuti più lunghi della storia. Perfino i tre fischi durano un'eternità e pare di essere sospesi in quell'attimo d'infinito che ogni volta separa il rigonfiamento della rete dal boato. Faccio in tempo ad abbracciare i miei due compagni e in un lampo gli occhi si gonfiano. Il "pianto di gioia" è verità occultata: la felicità ci fa sciogliere perché segna una cesura netta. E quella che abbiamo vissuto noi finora è stata letteralmente un'era. Anche le ghiandole lacrimali di Gabri sono in azione. Dani appartiene più alla schiera degli uomini-che-non-devono-chiedere-mai (si scherza, Diretto') e manterrebbe un invidiabile aplomb se non fosse tradito da un sorrisone pieno che ne altera visibilmente il colorito.
Siamo frastornati. Lo sguardo gioca a ping pong fra Curva e campo. Faccio appena in tempo ad avvicinarmi per godermi la coppa alzata da Pelle, poi vengo richiamato dal dovere. Abbiamo un piano da rispettare che non prevede pause. Nessun festeggiamento prolungato ci concede quel dispettoso tempo che poco prima sembrava in pausa e ora inizia a correre. La parte romanista di stadio ha rilasciato l'endorfina e si sta godendo il riposo del guerriero (perché davvero partite simili anche chi sta sugli spalti ha la sensazione di averle giocate). In tribuna stampa invece si brandiscono lancette: la nostra scarpetta di Cenerentola sta nella chiusura del giornale come da programma. Ovvero alla mezza. Ma contrariamente alle premesse l'ispirazione arriva eccome, i tasti battono veloci e le 24 pagine sono finite, riviste e mandate in stampa con tre minuti d'anticipo.
Daniele esulta come fosse il replay del fischio finale. Ma ha ragione. Abbiamo vinto anche noi. «Chiudi tutto, adesso dobbiamo sbrigarci». Adesso?!? Ma quando usciamo a passo svelto ci sentiamo freschi come rose, Gabri tira fuori il meglio del repertorio, Dani si lancia in lodi sperticate di Mou, io aggiungo che se volesse potrebbe calpestarmi e io fermo (e felice) sotto le sue suole e altro che Special, è The Only One. Arriviamo quasi danzando sulle nuvole all'auto che ci aspetta. Nessuna radio suona, siamo noi a parlare godendo come ricci e in quei minuti che ci separano dall'aeroporto mi rimbomba in testa "Glory Days". Missione sdoppiamento di personalità miseramente fallita. In un barlume di lucidità mi chiedo perché avrei dovuto. Da romanista e con Il Romanista. Ovvero grondante passione. Al quadrato.
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