L'Europa chiamò: quelle notti di sogni, di coppe e di campioni
Dal giro di campo di Losi dopo la Coppa delle Fiere a Pellegrini. Le imprese contro Colonia, Dundee e Barcellona. Anni di gioie, ma anche dolori: ora è delirio!
C'è un filo lungo 61 anni, a legare Giacomino Losi e Lorenzo Pellegrini. Un filo giallorosso fatto di 22.141 giorni: una vita, più o meno, ad attendere che qualcuno potesse emulare "Core de Roma" e sollevare al cielo, da capitano della Roma, un trofeo europeo. Allora, l'11 ottobre 1961, fu la Coppa delle Fiere, antenata della Coppa Uefa/Europa League: in un'Olimpico carico d'amore e passione e lacrime di gioia, così lontano eppure così vicino all'Olimpico visto in questa stagione, il giro di campo di Losi e compagni fu il coronamento di un sogno. Veniva da Soncino, Losi, ma era già diventato romano e romanista a tutti gli effetti. Non a caso il suo volto è stato ritratto nella celebre coreografia della Curva Sud in cui si celebravano i "figli di Roma, capitani e bandiere".
Quella Coppa, come questa, fu meritatissima anche se sofferta, anche perché sofferta. Dopo aver eliminato l'Union St. Giloise senza troppi problemi, Manfredini e compagni ai quarti trovarono il Colonia: la vittoria per 2-0 in Germania sembrava ipotecare il passaggio, ma a Roma i tedeschi vinsero con lo stesso risultato, costringendo la Roma a uno spareggio. Il 1° marzo 1961, al Flaminio, una doppietta di "Piedone", Lojacono e Pestrin misero al tappeto gli avversari (4-1) e ci portarono in semifinale. Gli scozzesi dell'Hibernian pure ci fecero penare: a Edimburgo finì 2-2, all'Olimpico 3-3. La "bella", il 27 maggio, rappresentò forse la miglior prestazione nella carriera di Pedro Manfredini: 6-0 e finale, con poker dell'argentino e gol di Menichelli e Selmosson. Poi fu il trionfo sul Birmingham City (2-2 in Inghilterra e 2-0 a Roma), ma per arrivare ad alzare quella coppa la Roma dovette soffrire. Proprio come hanno dovuto fare gli uomini di Mou quest'anno: a Bodø, travolti dal gelo e dai gol; in casa col Vitesse, col fiato sospeso fino al gol di Abraham che ha scongiurato i supplementari; di nuovo con i norvegesi, vittoriosi a casa loro e poi presi finalmente a pallonate.
"Non passa lo straniero"
Il cuore fu messo a dura prova anche l'8 dicembre 1982. E di nuovo di mezzo c'era il Colonia, nel ritorno degli ottavi di finale di Coppa Uefa, con gli uomini di Liedholm che viaggiavano verso il secondo Scudetto. La sconfitta per 1-0 in Germania fu pareggiata a inizio del secondo tempo da Iorio: chi c'era, quel giorno all'Olimpico, giura che gli spalti pulsassero al ritmo del battito cardiaco, mentre Falcao e compagni andavano alla ricerca del gol della qualificazione. Arrivò all'88', e lo segnò il Divino, l'uomo arrivato dal cielo per portarci in cielo, e il boato dello stadio per certi versi ce l'abbiamo tatuato tutti sull'anima, anche chi non era ancora nato o non c'era più. E la profezia di quel celebre striscione nella Sud si realizzò: «Non passa lo straniero».
Striscione che c'era anche il 25 aprile 1984, quando l'impresa da compiere a casa nostra era ancora più grande: bisognava ribaltare il 2-0 incassato in Scozia dal Dundee United, in palio la finale della Coppa dei Campioni. Il popolo giallorosso sugli spalti, illuminato da una luce accecante che forse lui stesso produceva, spinse la Roma alla rimonta: 3-0 firmato Pruzzo (doppietta) e Di Bartolomei. Agostino, Ago nostro… Quanto avrebbe meritato di vivere emozioni del genere, in questi giorni. Lui che c'era andato vicinissimo, in quel maledetto 30 maggio, quando le speranze e i sogni si schiantarono su un dischetto del rigore.
Un boato dell'Olimpico ci fu anche il 24 aprile 1991, quando la Roma di Giannini, Voeller e Rizzitelli riuscì a raggiungere la finale di Coppa Uefa. Il cammino fino a quel momento era stato esaltante, ma rischiava di interrompersi di fronte al muro danese del Broendby: dopo lo 0-0 in trasferta, l'assedio alla porta difesa da Schmeichel sembrava non produrre risultati e la gara rimaneva inchiodata sull'1-1 che ci avrebbe eliminato. Ma quando il Tedesco Volante si gettò su un pallone respinto dal portiere avversario (anticipando di un millisecondo Rizzitelli) e lo scaraventò in rete, i quasi 60.000 tifosi sugli spalti proruppero in un boato di liberazione simile a quello provocato da Falcao contro il Colonia. La delusione di arrendersi poi in finale contro l'Inter è tutta nelle lacrime che Rizzi-gol versò dopo quella rimonta sfumata: sono le lacrime di chi quel giorno era allo stadio o a casa davanti alla tv, sono le lacrime di tutti i romanisti presenti, passati e futuri. Sono le lacrime di chiunque abbia mai pianto per la Roma, le stesse versate da Mourinho al triplice fischio col Leicester: hanno un sapore opposto – dolore da una parte, gioia dall'altra – ma ci ricordano che vittoria e sconfitta sono due facce della stessa medaglia, e che "chi tifa Roma non perde mai".
Figli di Roma
Losi, Di Bartolomei, Giannini… Fateci caso: le nostre imprese sono perennemente scandite dall'avvicendarsi di figli di Roma, capitani e bandiere. Come Francesco Totti, che guidò la Roma a due imprese memorabili in Champions League: nel 2007, a Lione, quando un'Olympique apparentemente invincibile fu strapazzato dalla banda Spalletti. Il sigillo del Dieci, e poi quella sorta di capoeira di Amantino Mancini a stordire Reveillere, prima di esplodere in porta un mancino indimenticabile. La Roma entrava tra le migliori otto d'Europa, e l'anno dopo faceva il bis. A farne le spese nel 2008 fu il Real Madrid di Casillas e Raul: vittoria in rimonta per 2-1 all'Olimpico (reti di Pizarro e Mancini), stesso risultato anche al Santiago Bernabeu. Finì con la corsa della squadra sotto al settore ospiti, che cantava il proprio amore. C'era Totti, il più grande calciatore della nostra storia, e con lui un altro figlio di Roma: Daniele De Rossi.
Questa Coppa, che Lorenzo ha alzato al cielo, è anche per loro due, che avrebbero meritato di vincere anche al di fuori dei confini nazionali nel corso della loro carriera con la squadra del cuore. Perché «dovremmo ringraziare di essere romanisti anche dopo i 7-1», ed è vero, ma lo facciamo con piacere anche dopo i Roma-Barcellona: abbracci il vicino di posto allo stadio quando hai ancora negli occhi la corsa di Manolas, il rigore di Daniele e la zampata di Dzeko, quando senti il tuo cuore battere all'impazzata e temi che ti verrà un infarto, mentre piangi vedendo quello spettacolo sugli spalti.
Il 10 aprile 2018 avevamo già sofferto abbastanza: il ko per 4-1 rimediato all'andata dei quarti di finale di Champions contro una squadra di marziani era stata una punizione fin troppo severa per la squadra, e anche per chi l'aveva seguita in Catalogna, relegato nella "piccionaia" del Camp Nou dopo aver speso una cifra da capogiro per assicurarsi il biglietto. Ma fin dalle ore immediatamente precedenti al fischio d'inizio del ritorno, sull'Olimpico e su tutta Roma aleggiava la brezza dell'impresa: magari non veniva espressa a voce, la convinzione di riuscire in quel miracolo, ma era nelle teste e nei cuori di tutti i romanisti. Perché sì, c'è da soffrire, ma anche da gioire, e per chi è nato e cresciuto con la Roma nel cuore – Amadei, Losi, Di Bartolomei, Conti, Giannini, Totti, De Rossi, Pellegrini – non c'è gioia più grande che vincere qualcosa con questa maglia. Questa Coppa è di tutti loro.
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