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De Luca: "Roma, "Quasi gol". Mou promosso se arriva in Europa League"

Il popolare conduttore tv porta in scena la leggenda di Carosio: "Interpreto Nicolò e gli restituisco giustizia. I Firedkin ? Mi piace la discrezione"

PUBBLICATO DA Gabriele Fasan
02 Maggio 2022 - 09:45

«Quasi gol». Un'espressione che qualunque appassionato di calcio conosce, coniata da Nicolò Carosio, una delle facce e delle voci più importanti dello sport radiotelevisivo italiano, torna in voga. Grazie al lavoro di Massimo De Luca, popolare giornalista e conduttore tv, che ha raccontato tante domeniche italiane del pallone, che presta il volto a un personaggio che vuol dire Rai, e prim'ancora Eiar, che vuol dire Campionati del Mondo del '34 e del '38, che attraversa la storia d'Italia dal boom economico agli Anni Settanta, narratore di 40 anni di partite, portatore della verità nell'immaginazione di tifosi e telespettatori. Prima di essere estromesso dal ruolo e dalla Rai per un incidente, un'espressione politicamente scorretta attribuitagli a Mexico '70. Sul banco degli imputati l'espressione «etiope» un po' stizzita, rivolta - si disse - a mo' di insulto (la leggenda metropolitana di un «negro» mai pronunciato, in realtà) al guardalinee di Italia-Israele, reo di aver annullato un gol di Gigi Riva. De Luca porta in scena la prova sonora della verità, condita con i primi "Tutto il calcio minuto per minuto", un'Italia sconcertata per la tragedia di Superga (evitata da Carosio miracolosamente grazie alla moglie), musica e parole di un periodo storico che ha cambiato la faccia del Belpaese.

Con la regia di Marco Caronna, avvezzo al teatro che si occupa di sport, che mescola proiezioni e canzoni, De Luca passa da essere se stesso ad impersonare Carosio, un suo padre spirituale, sul palco con gli attori Paolo Rossini e Patrizia Scianca (che interpreta la signora Carosio). Un'idea che viene da lontano, «nata addirittura più di dieci anni fa - racconta Massimo De Luca - per restituire a Nicolò Carosio ciò che era di Nicolò Carosio. Per riparare a un torto subìto da un mostro del nostro giornalismo, della nostra tv, del nostro calcio. Tutto cominciò con le ricerche approfondite di Pino Frisoli, un ricercatore che lavora per Rai Sport e raccoglie dati storici sportivi della tv italiana, che venne da me riportando alla luce documenti e certezze sull'episodio che pose fine alla carriera di Carosio. Prima di tutto con la telecronaca originale Rai di quella partita, poi con lettere, articoli dei giornali. Ci furono proteste dell'ambasciata etiope, ma per un'altra espressione pronunciata in una trasmissione radiofonica dall'allora direttore del "Corriere dello Sport", Antonio Ghirelli, che disse: "Se vogliamo scherzare, possiamo parlare di vendetta del Negus". Insomma, fu un colossale equivoco che coinvolse Carosio». L'esordio di "Quasi gol" risale al 2017, al teatro di Salsomaggiore, anche se era uno spettacolo un po' diverso, più asciutto. Arricchito nel 2019 con i dialoghi tra Nicolò Carosio e la moglie, torna oggi alle 21 a Roma alla Sala Umberto in data unica. Il ricavato della serata andrà tutto in beneficenza alla mensa dei poveri della basilica di Santa Maria degli Angeli: «È un po' la data del cuore - spiega De Luca, un romano adottato da trent'anni da Milano - Dopo il Covid non pensavo riuscissimo a rimettere tutto in piedi, ma farlo a Roma, dove verranno parenti, amici e colleghi di una vita ammetto che mi emoziona».

Hai mai conosciuto Carosio?
«L'ho sfiorato, diciamo. Sono entrato in Rai nel 1976, poco dopo che lui era andato in pensione, ho lavorato con tanti colleghi che avevano lavorato con lui, da Pizzul a Valentini, da Ciotti ad Ameri».

Com'è andata l'esperienza di attore?
«Partendo dal presupposto che al microfono e a braccio nella mia carriera problemi non ne ho mai avuti, ammetto che è proprio un altro mestiere e che quando devi dare la battuta precisa a un attore non è facile, un po' di apprensione c'è. La parte più difficile è l'apertura dello spettacolo, il provino di Carosio prima di entrare in Rai: cioè un'improvvisazione di una radiocronaca. Io lo interpreto con tanto di cappello, una volta passata l'introduzione mi tranquillizzo... È un'esperienza che mi ha fatto molto divertire».

Ritornando a Carosio, proiettandolo al dibattito pubblico attuale, qual è lo stato attuale del "politically correct"?
«Va da sé che insulti e discriminazioni vanno senz'altro banditi. Ma più che al nostro mestiere, penso soprattutto ad attori o comici, perché per loro fare una battuta un po' salace su certi aspetti della vita è diventato impossibile. E credo non sia giusto, perché è come se volessimo sterilizzare tutti i cibi: ci ammaleremmo subito dopo perché il nostro corpo non avrebbe anticorpi dato da qualche "sano" batterio. Non dobbiamo far finta che sia tutto perfetto e lineare».

Le radiocronache e le telecronache si sono evolute o involute?
«Tecnicamente evolute, le cronache di Carosio oggi sarebbero fuori tempo. All'epoca si accompagnavano le immagini, non si distraeva lo spettatore. A noi bastava che Martellini o chi per lui dicesse i nomi dei calciatori, perché non li conoscevamo tutti, specialmente quelli stranieri. Oggi gli utenti sanno tutto, hanno a disposizione varie piattaforme, la rete. Però si sta passando il segno: nel protagonismo di tanti telecronisti, da un eccesso di discrezione siamo all'eccesso di invadenza. Bisogna coinvolgere lo spettatore, certo, ma una cronaca non dev'essere ansiogena, perché la tv ti dà le immagini, non c'è bisogno di descrivere tutto. Né si deve esagerare con il "covercianese": usare termini ipertecnici e ipertattici è una sciagura. Chi li recepisce? Il 10% degli appassionati: il calcio è il romanzo popolare attuale ed è seguito per lo più da gente comune che non è tenuta a sapere che cosa sia una "seconda palla" o una "transizione negativa". È vero che gli spettatori oggi sono preparati, e questo complica da un lato il nostro lavoro, ma è vero anche che il calcio è un fenomeno di massa e nella massa ci sono tutti. Non si può fornire una raffica di termini e nozioni a un ottantenne come a un quindicenne, a un avvocato o a un semianalfabeta. Ritmo e concitazione sono i due poli, bisogna collocarsi nel mezzo: non c'è gradazione di emozioni. Un campionato europeo vinto non può essere uguale a un gol di Serie B. Si dovrebbe parlare un po' meno in tv...».

Com'è la Roma di Mourinho vista da Milano?
«Devo dire prima di tutto che sono un privilegiato, perché da Milano, dove quest'anno si giocano lo scudetto, faccio l'osservatore romano. Credo che se la Roma arriverà quinta avrà ampiamente assolto il suo compito. Ha passato delle fasi alterne in questa stagione, ora ha trovato continuità anche se priva di picchi altissimi. Quinto posto vorrebbe dire Europa League, anche se, incrociando le dita, ci si potrebbe arrivare anche vincendo la Conference League. È ovvio che avrà bisogno di ritocchi per il futuro nel suo progetto, ma come primo anno sarebbe assolutamente da promuovere. Ci sono incongruenze che fatico a capire sul mercato, ma che sono vizi del calcio italiano più in generale: senza nulla togliere a Viña, avendo Zalewski nel serbatoio e dovendo aspettare il rientro di Spinazzola, con Calafiori a maturare lontano da Roma, si sarebbe potuto destinare altrove un investimento del genere. Oppure Shomurodov, pagato non poco che però non si è visto quasi per niente».

Ti è piaciuta la Roma di Leicester? Come vedi il ritorno?
«Gli inglesi sono battibili, ma la Roma deve migliorare come mentalità. E qui Mourinho deve farle fare uno scatto: ha trovato un gol presto, ha fatto un buon primo tempo e poi ha avuto un po' il "braccino". Ci sono i meriti degli avversari, è vero, ma è già successo in stagione di compromettere alcuni risultati. Altri li ha recuperati, però a volte la Roma dà l'idea di non avere la consapevolezza di poter essere più grande di quello che finora è stata. In questa fase non ci voleva l'infortunio di Mkhitaryan. L'armeno aveva iniziato la stagione con il dubbio che potesse trovare la quadra con Mourinho e invece è stato il migliore. Peccato, perché anche da quel punto di vista c'è stata una gestione degli infortuni, e incrociamo ancora le dita, molto più efficace rispetto al passato».

I Friedkin?
«Mi piace la loro grande discrezione. Non parlano mai? È meglio. Per il nostro lavoro è peggio, ma è meglio (ride, ndr)...».
Zaniolo è un patrimonio del calcio italiano. Che futuro ti immagini per lui?
«È comprensibile che punti a un rinnovo importante, da grande calciatore. Ma dopo i due infortuni non lo abbiamo più rivisto ai suoi livelli se non a sprazzi. Mi sembra stia maturando come uomo ed è importante e la guida di Mourinho può essere fondamentale. Spero che la Roma punti su di lui, aspettando che superi le paure che due infortuni del genere fisiologicamente comportano».

Pellegrini è un capitano all'altezza?
«Sì, può esserlo. Ha le qualità e le caratteristiche giuste e può essere un leader. A tal proposito vorrei che si lavorasse di più su Mancini: non è possibile che prenda un'ammonizione a partita, passino quelle di gioco, anche se deve imparare a essere meno falloso, ma quelle per proteste sono inammissibili, come quelle di chi si toglie la maglia per festeggiare un gol. Alla lunga si apporta un notevole danno alla squadra».

Che giocatore è Abraham?
«Mi piace molto la sua dedizione al gioco di squadra, è tecnico, mi sorprende la sua agilità anche negli spazi stretti, nonostante la sua altezza. Con il Leicester ha fatto meglio il difensore che l'attaccante, ecco vorrei che fosse più incisivo negli ultimi metri, anche se non sempre è assistito come si deve. Comunque da inglese al suo primo anno in Italia la sua pagella è più che positiva».

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