Carboni: «Spinazzola come me, anche io mi ruppi il tendine e mi curò Leimpanen»
Il doppio ex di Sampdoria-Roma: «Spero Leo torni più forte di prima. Nella Capitale anni splendidi: Viola come un padre, Totti un gigante già da ragazzo»
Ripensi agli Anni 90 e vedi i suoi inconfondibili riccioli sfrecciare su quella fascia. Con la maglia della Roma Amedeo Carboni lo ha fatto senza soste, per sette stagioni e 230 partite ufficiali. Tante, che gli sono valse la fascia da Capitano nell'interregno fra l'addio di Giannini e l'esplosione di Totti. E soprattutto l'imperituro affetto dei tifosi giallorossi. Reciproco: «Li ricordo sempre con piacere, a Roma come a Genova ho trascorso anni bellissimi». E domenica prossima si sfidano proprio le due squadre italiane che lo hanno consacrato.
Samp-Roma è la tua partita.
«Ne è passato di tempo. E ce ne sono di doppi ex: Cerezo, Montella...».
Ma la Sampdoria ti ha lanciato e nella Roma ti sei affermato.
«Mai dimenticarsi del passato. Sono rimasto molto legato a entrambe, mi informo sempre sui rispettivi risultati. Ma in una gara simile non posso fare il tifo».
La Coppa Italia vinta con tutte e due le maglie, una Coppa Coppe a Genova, una finale di Uefa a Roma. Mica male.
«Sono stato fortunato nei miei anni italiani, considerando che le grandi storiche erano sempre lì. Ma quella Samp era una squadra importante, con giocatori rimasti tanto tempo ad alti livelli. E nella Roma ho avuto compagni molto forti».
Due squadre costruite da Mantovani e Viola.
«Altro calcio, altri presidenti: amavano i loro club, quando ne parlavano respiravi passione. Si sentivano padri per i calciatori e noi stessi li consideravamo tali: erano rispettatissimi, ma se avevamo un problema parlavamo con loro. E loro c'erano sempre per noi, i ds di allora si occupavano solo di mercato».
A proposito di mercato, hai salutato la Samp alla vigilia dello scudetto. Rimpianti?
«Nessuno: avevo litigato con un compagno, consideravo l'esperienza chiusa. Poi andavo in una piazza magnifica e in un club che mi cercava da tempo».
Eppure a Roma non sei capitato negli anni migliori.
«Nella mia prima stagione c'era una signora squadra: Voeller, Giannini, Desideri, Rizzitelli, a cui si aggiunsero Aldair, Carnevale, Salsano... Dopo forse siamo stati meno competitivi, ma qualche soddisfazione ce la siamo tolta: la strepitosa cavalcata in Uefa, il successo a Mosca dove nessuno vinceva da anni, altri risultati di prestigio. Peccato per quella rimonta abortita sul più bello con lo Slavia Praga. Ma le emozioni non sono legate esclusivamente ai trionfi sportivi».
A cos'altro?
«Il mio periodo romano è stato bello, intenso, ho avuto la fortuna di incontrare grandi tecnici: Bianchi, Mazzone... E poi il Barone, sia pure per poco tempo. Immenso».
Che ricordo hai di lui?
«Gli allenamenti li guidava Ezio Sella. Ma Liedholm era proprio come me lo aspettavo: ci dava tranquillità, aveva un enorme carisma. Quello è stato anche un periodo divertente: tutti raccontavano aneddoti su di lui, soprattutto Giorgio Rossi, l'anima di quella squadra».
Nella Capitale hai incrociato di nuovo Boskov.
«Personaggio fantastico. Alla Sampdoria mi considerava uno dei "giovani" con Lombardo e Pagliuca, quando venne alla Roma mi chiamò per incontrarmi prima. Sempre stato un grande Vujadin».
Ma la sua stagione romanista non fu felice per te.
«Mi ruppi il crociato e rimasi fuori quasi tutto l'anno. Più in là anche il tendine d'Achille, proprio come è successo a Spinazzola, esterno sinistro come me. E le analogie fra noi due non finiscono qui...».
Cioè?
«Andai a Turku, in Finlandia, da quello che era considerato un luminare nella cura di quel tipo di infortunio. Ricordo che mentre aspettavo, dalla sala operatoria uscì questo signore piccoletto, un po' claudicante. Era Leimpanen, lo stesso che ha curato Spinazzola».
Tu ne sei uscito alla grande.
«Dopo quel ko ho vissuto il miglior periodo della mia carriera. E spero capiti anche a Leo. Ricordo che da lì tornai in Italia per essere seguito dal professor Benazzo di Pavia, che poi ho ritrovato all'Inter anni dopo. Un preparatore atletico mi ha aiutato nella fase di recupero e da lì ho spiccato il volo».
Anche materialmente, destinazione Spagna.
«Ancora una volta sono stato fortunato: ho giocato in Italia negli Anni 90, quando la Serie A era il top; il decennio successivo in Liga, che si avviava a diventare il maggior campionato d'Europa. A Valencia ho vinto quasi tutto quello che si poteva vincere: campionati, coppe nazionali e internazionali. Resta però il grande dispiacere delle due finali di Champions perse».
Cosa vi è mancato?
«La prima volta il Real era più forte e abituato a quelle sfide. Pensavo che a 35 anni non mi sarebbe più capitata la grande occasione. Invece l'anno dopo è stato fantastico: non eravamo più la sorpresa, abbiamo meritato la finale e quando perdi ai rigori ti manca solo la fortuna. Lo sa bene anche la Roma, purtroppo».
Da Valencia Benitez ti ha riportato in Italia.
«Sono io che ho portato lui all'Inter. Scherzi a parte, ci siamo convinti e anche supportati a vicenda».
Poi però sei tornato in Spagna.
«Ora vivo a Barcellona, lavoro con la Molcaworld, una società che si occupa di allestire tutto quello che nei nuovi stadi va al di là della progettazione dello scheletro: dagli sky box ai disegni sugli spalti».
Avresti potuto o potresti ancora essere utile alla Roma.
«Qualche anno fa ho incontrato i dirigenti giallorossi per esporre i nostri progetti, ma in Italia tutto ha tempi pachidermici».
Ormai ti senti un po' spagnolo?
«Per niente. Sto bene qua, ma da lontano il senso di appartenenza è più forte: sono fra quelli che all'inno di Mameli si alza in piedi».
Ultimamente la Nazionale ti ha dato poche soddisfazioni.
«Una tragedia sportiva. Così come è stato un miracolo l'Europeo».
Del miracolo chiamato Totti hai vissuto la genesi anni fa.
«Già da ragazzino si percepiva il giocatore superiore, ma mi ha stupito: non pensavo restasse tutta la carriera a Roma con mezza Europa a fargli la corte: un gigante».
Hai indossato la fascia prima di lui e dopo Giannini.
«Onore e responsabilità enormi: cerchi di non fartene accorgere, ma in quei momenti rappresenti una squadra, uno scudo, una città».
Ora un'icona è in panchina.
«Grande allenatore Mourinho, ma abituato a grandi giocatori. Ha una squadra differente rispetto alle precedenti, deve costruire. Si sta assestando e la Roma deve pensare di poter vincere la Conference».
Intanto ha stravinto il derby.
«Anch'io ne ho vinto uno 3-0, so cosa vuol dire, senza paura tutto si può raggiungere».
Pronostico per domenica?
«Non me lo chiedere. Sarebbe facile dire pareggio, ma spero se la giochino e me la godrò. Forza Roma».
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