L'Ambasciatore italiano a Lisbona: "Fiducia in Mourinho. Abraham erede di Dzeko"
Carlo Formosa, romano e romanista: "José mi entusiasma. E quei messaggi in cui parliamo di calcio...Gli spareggi per arrivare ai Mondiali? Per scaramanzia non dico nulla"
Ha iniziato la carriera diplomatica nel 1992, si è occupato di Paesi dell'ex Unione Sovietica ed Europa Orientale e del Medioriente, passando per le Nazioni Unite a New York e il nostro Ministero degli Esteri, andando e venendo da Roma, la sua città, dove è nato nel '63. Carlo Formosa, nel 2009 insignito del titolo di Cavaliere Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica, è dal gennaio 2020 Ambasciatore d'Italia in Portogallo. E se dici Portogallo, a Roma, da qualche tempo il pensiero va a Trigoria, visti i tanti professionisti portoghesi che ci lavorano dal 2019 ad oggi. Ma soprattutto, adesso, a José Mourinho, col quale l'Ambasciatore Formosa, da sempre appassionato tifoso romanista, è in contatto, per ora solo via Whatsapp, da quando in pratica lo Special One è stato annunciato sulla panchina giallorossa, cioè nel maggio scorso.
Ambasciatore, come nasce e come ha coltivato la passione per la Roma?
«Devo dire che ho un ricordo nitido di quando ho capito di tifare visceralmente la Roma. Ero arrivato da pochi mesi a Mosca, al seguito dei miei genitori in servizio presso la nostra Ambasciata. Un dipendente della ditta italiana che realizzava interventi di ristrutturazione della scuola elementare italiana era un fanatico, diremmo oggi un vero malato della Roma. Noi ragazzini lo incontravamo quotidianamente andando a scuola e pendevamo dai suoi racconti, molto coloriti e appassionati, e tutti declinati in chiave di esaltazione delle gesta della Roma. In un paio di mesi, gli agnostici erano diventati romanisti, e quelli che tifavano altre squadre si erano convertiti alla nostra fede calcistica. Insomma, quel dipendente, tale Mario, ha inconsapevolmente svolto un'incredibile e meritoria opera di proselitismo calcistico! Ricordo di aver seguito da lì, attraverso copie dei giornali sportivi datati settimane addietro rispetto agli eventi, l'imperiosa girata di testa di Prati per la sesta vittoria consecutiva nel mitico campionato del terzo posto, e anche la terrificante botta al volo del povero Carlo Petrini dentro la porta della Sampdoria, dopo aver sbagliato due gol molto più semplici e aver chiesto scusa ai tifosi con un deferente inchino riportato in una foto a mezza pagina, che mi colpì molto e che ancora porto vivida nei miei occhi».
È un tifoso da stadio? Come la segue attualmente? L'ha seguita mai, anche a causa del suo lavoro, in qualche altro Paese?
«Confesso che non sono mai stato un assiduo frequentatore dell'Olimpico. Quando risiedevo a Roma ci sono stato spesso, ma non regolarmente. Ma la prospettiva da lì non è ideale per apprezzare pienamente gesti tecnici e opzioni tattiche. La verità è che sono stato viziato dal fatto di aver frequentato molto il Bernabeu. Sempre per ragioni di lavoro dei miei genitori ho fatto il liceo a Madrid e il mio migliore amico dell'epoca aveva un abbonamento allo stadio, di cui ho usufruito a piene mani. Da quelle tribune i calciatori ti sembrava quasi di poterli toccare. Li vedevi praticamente sotto di te. Era comunque un'atmosfera quasi da spettacolo teatrale. Non c'è paragone con la passione, il trasporto, la partecipazione complessiva che si respira all'Olimpico, dove in ogni momento si avverte che la fede e l'amore per la squadra prescinde dal risultato. Quando anche noi disporremo di un nostro stadio fatto per il calcio, sarà un ambiente unico e irripetibile. Perché reso tale da un pubblico, quello romanista, semplicemente inarrivabile nella sua capacità di far vibrare di ammirazione e stupore persino chi non segue il calcio. Anche a quegli anni madrileni ho associato nitide immagini romaniste: il fantastico colpo di tacco volante di Falcao con palla collocata sul capoccione trionfante di Roberto Pruzzo, oppure capitan Santarini con la prima delle tante Coppe Italia conquistate da quella fantastica squadra. Pure da lì percepivo il valore degli inarrivabili paradossi di Nils Liedholm, che a Roma galvanizzavano tifoseria e addetti ai lavori. Invece, durante i miei tanti anni trascorsi all'estero già da diplomatico, mi sono sempre organizzato per seguire le partite della Roma in televisione. Ho prestato servizio ad Hanoi, Teheran, New York e ora Lisbona, e ovunque mi sono attrezzato per ridurre al minimo il rischio di saltare un appuntamento. A New York andavo a vedere le partite o presso il Circolo dei Romanisti, oppure direttamente presso la sede di Rai Corporation, il cui presidente, peraltro, era uno sfegatato romanista. In Vietnam e Iran invece bisognava ricorrere a "soluzioni creative" per captare il segnale dei canali che trasmettevano la partita. Giusto qualche settimana di tempo dall'arrivo, il modo l'abbiamo sempre trovato».
Con Nils Liedholm in occasione dei Mondiali del 1990, con gli "indimenticabili i suoi commenti nell'illustrare lo svolgimento delle partite"
Il Romanista è l'unico quotidiano esistente dedicato a una sola squadra di calcio. Le è capitato all'estero qualche episodio che l'ha colpita e può raccontare che rappresenta questa passione?
«Molti. Ma sarebbe troppo lungo elencarli tutti. Le racconto solo l'ultimo caso. Qualche settimana fa il funzionario di turno in Ambasciata mi ha segnalato un potenziale problema con un connazionale che stava per essere sottoposto a fermo dalle autorità di polizia perché stava litigando con altri avventori di un Pub lisbonese tradizionalmente frequentato da giovani anglosassoni. Dopo un quarto d'ora il funzionario mi ha richiamato come d'accordo per aggiornarmi sugli sviluppi e mi ha spiegato che si era risolto tutto. Si trattava di un tifoso romanista che, diciamo, chiedeva con insistenza al gestore di sintonizzare uno dei televisori del locale su Empoli-Roma, e non solo su quelle della Premier League. Alla fine, non si sa come, sembra che lui sia riuscito a convincere mezzo pub, e pure qualche poliziotto, a tifare Roma. Così la quasi-rissa si è trasformata in una specie di festa. Il funzionario di turno mi ha aggiunto che il proprietario avrebbe avuto piacere ad avermi ospite per la visione della partita. Invito che ovviamente non ho esitato ad accettare».
Cosa ha pensato quando la Roma ha annunciato Mourinho e come ha vissuto la notizia in Portogallo?
«Quando è circolata la notizia, data la mia posizione qui, inevitabilmente ho ricevuto moltissime chiamate e messaggi di amici e conoscenti, sia portoghesi, sia italiani, che commentavano in modo entusiastico l'acquisto. Ricordo che il mio commento scherzoso era di mettere in guardia gli amici romanisti sul fatto che, dopo Fonseca e Pinto, con Mourinho avevo esaurito la scorta di portoghesi da mandare alla Roma, e quindi di trattarlo bene! Scherzi a parte, io personalmente ne sono rimasto sorpresissimo. La sua scelta era rimasta nascosta fino all'ultimo, mentre si davano per certi altri nomi. Quando il suo arrivo è diventato ufficiale ho reagito, come credo la totalità dei romanisti, con felicità e orgoglio nel rilevare come uno degli allenatori più celebri e vincenti del calcio a livello mondiale avesse scelto di venire da noi. Una bella sensazione, anche da italiano, oltre che da Romanista. Anche aldilà del piano tecnico, non ho avuto allora, e non ho oggi, alcun dubbio che si sia trattato di un acquisto di straordinario valore e impatto per le prospettive della Roma in questi anni che rappresentano un passaggio delicato nel percorso di radicamento dei proprietari nella nostra città nel suo complesso».
Da cosa è stato convinto Mourinho a venire a Roma?
«Non lo so. Posso solo provare a supporlo. Immagino che la proprietà sia stata decisiva nel trasmettere l'impegno a condividere con l'allenatore un percorso fatto di seria programmazione in funzione di un obiettivo vincente. Per un personaggio come Mourinho posso pensare che il sapore di una sfida dai contorni di assoluta novità potesse risultare appetibile solo se sostenuta da tale percezione di poter contare sul convinto supporto dei proprietari nel realizzare un progetto vincente a medio termine».
Ha in programma di conoscere Mourinho di persona, c'è un appuntamento già fissato?
«Non è fissato ma spero di riuscire a incontrarlo in occasione di un mio prossimo passaggio romano. Per il momento continuiamo a scambiarci messaggi per telefono, essendomi stato introdotto da un amico comune. Portiamo avanti in questo modo una simpatica corrispondenza da quando ancora c'era Fonseca a dirigere le ultime partite dello scorso campionato. Devo dire che lui è molto comprensivo e paziente nei miei confronti. A volte, nei miei commenti, forse entro un po' troppo negli aspetti tecnici, e in un'occasione mi ha risposto, giustamente, che meno male che faccio l'Ambasciatore e non l'allenatore! È straordinario anche nel gestire diplomatici-tifosi che, come metà della popolazione italiana, sono convinti di essere dei grandissimi intenditori di calcio».
Da romanista sicuramente sa che la piazza è piuttosto affamata e l'urgenza di risultati stride un po' con un progetto triennale. Come si coniugano pazienza, fiducia e tempistica?
«A mio avviso, quella passione, quell'amore cui mi riferivo prima, caratterizzante in positivo il tifo romanista, inevitabilmente contiene in sé anche il presupposto di un'impazienza di veder coronato con successo la propria testimonianza di affetto e sostegno per la squadra. Ma se si riesce a razionalizzare appare evidente come un'affermazione a livello nazionale o internazionale possa maturare, salvo una straordinaria e inverosimile congiunzione astrale fatta di mille e impensabili incastri favorevoli secondo schemi logici, solo a conclusione di un percorso di crescita progressiva. È importante che l'ambiente recepisca questa oggettiva e tutto sommato banale constatazione. Tutti i grandi allenatori che hanno vinto, magari anche aprendo un ciclo di successi consecutivi per il proprio club, lo hanno fatto dopo un periodo più o meno lungo di maturazione».
L'Ambasciatore sul campo di calcio in occasione dell'amichevole tra la selezione dei Romanisti della Farnesina e la Nazionale Diplomatici
Da tifoso come sta vedendo la Roma? Cosa pensa che stia mancando finora e cosa pensa che si sia aggiunto?
«Domanda complessa. Dico subito che la mia sensazione è che il bicchiere sia senz'altro mezzo pieno. A guardare la classifica, se non fossimo stati sfortunati in alcune scelte arbitrali (che in varie partite ci hanno oggettivamente penalizzato) e se nel doppio confronto con la Juventus avessimo raccolto quello che avevamo ampiamente meritato per quasi tutti i complessivi 180 minuti di gioco, la Roma, con una rosa certamente non superiore alle prime della graduatoria, sarebbe comodamente installata al quarto posto, a distanze non certo siderali da chi si sta contendendo lo scudetto. Quindi, sul piano dei risultati le cose stanno andando mediamente bene, soprattutto considerato la profonda rivoluzione che ha interessato la rosa, alcuni "infortuni eccellenti" e il cambio di filosofia di gioco legato al cambio di allenatore. Nonostante alcuni episodi di improvvisi e inspiegabili cedimenti, a me la squadra pare avere acquisito molto più carattere rispetto agli anni scorsi. C'è più fiducia da parte dei giocatori, maggiore condivisione del progetto del collettivo rispetto alle indicazioni dell'allenatore, palese disponibilità a svolgere compiti tecnico-tattici per loro inediti, se necessario. Ora si tratta di affinare i meccanismi ed essere fortunati nel completare il mosaico con pochi ma ben calibrati acquisti che si rivelino in grado di adattarsi a un campionato molto livellato e a un ambiente oggettivamente più che impegnativo».
La Roma da ormai tre anni ha allenatore e staff tecnici portoghesi, da più di un anno si è aggiunto Tiago Pinto. Cosa ne pensa del suo operato?
«Qui in Portogallo seguono la Roma ormai come se fosse una squadra locale, tanto è numerosa, ormai nel tempo, la presenza portoghese a livello tecnico e dirigenziale. Quando fu scelto Pinto, i locali mezzi di informazione seguirono il suo sbarco a Roma con molta curiosità e una certa sorpresa, perché non era molto conosciuto nell'ambiente, non avendo ricoperto una posizione di livello apicale nel suo club di provenienza. Ma credo che tutti abbiano potuto constatare la sua serietà e capacità di lavoro, l'applicazione e il carattere. Non è da dare per scontato che un dirigente così giovane e senza una lunghissima esperienza in quella posizione possa sostenere tutto sommato agevolmente la pressione di un ambiente complesso e impegnativo qual è quello romano. La questione della "fortuna" cui mi riferivo prima nel riuscire a prendere i giocatori giusti per il prossimo anno è ovviamente una capziosità. Se è vero che qualcuno dei nuovi arrivi non sembra rivelarsi pienamente funzionale agli schemi voluti dal mister, non dobbiamo dimenticarci che questa estate grazie a un'operazione condotta interamente da Pinto è sbarcato da noi Abraham, uno dei giocatori più forti del campionato, con potenzialità incredibili e in grado di non far pesare l'uscita di un altro grandissimo campione qual è Dzeko».
Ha avuto rapporti con Fonseca? Che idea si è fatto dell'avventura in Italia dell'altro tecnico portoghese?
«Non ho avuto la fortuna di conoscere Fonseca. Da fuori ho avuto la sensazione che nonostante le apparenze si trattasse di una personalità forte, che forse non è riuscita a trovare un equilibrio virtuoso con le altre forti personalità all'interno spogliatoio. Una fattispecie, insomma, opposta a quella che si è creata con l'arrivo di Mourinho. Gli va comunque riconosciuto di essere riuscito in numerosi frangenti a far giocare la squadra veramente bene».
Siamo arrivati gli spareggi Mondiali, con Portogallo-Italia finale annunciata. Chi vede come favorito?
«Lei è temerario nel pormi questa domanda! Le risponderò con un aforisma del grande Edoardo De Filippo: "Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male"...».
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