Mourinho prima di tutto
La Roma aveva bisogno di lui, lui aveva bisogno della Roma. Panella (psicologo dello sport): «Punta sul gruppo. Con lui il motto è “prevenire meglio che curare”»
Una carezza in un pugno, il nostro titolo di prima pagina di qualche giorno fa, è la sintesi del feeling, come direbbe lui, tra la Roma, i romanisti e José Mourinho. Una carezza in un pugno iniziata il 4 maggio scorso, quando lo Special One è stato annunciato sulla panchina giallorossa dal club. Una carezza per tutti i romanisti, giocatori compresi, una ventata di speranza perché quest'uomo dal curriculum inarrivabile, nato 58 anni fa a Setubal, avversario degli anni che furono di una Roma forte ma dai tanti rimpianti, si è letteralmente preso il cuore e la pancia di tutti. S'è preso la città che tifa Roma con la carezza di un padre, ma anche con il pugno, non tanto di un sergente di ferro, quanto di un serio professionista, autorevole, leader, esigente, vincente e convincente. E l'ha scosso questo pugno, José Mourinho, l'ha rivolto in segno di esultanza al settore dell'Arechi dopo la quarta vittoria su quattro partite, quella con la Salernitana, dopo che con quella stessa mano aveva picchiato sul cuore alla fine di Roma-Fiorentina. Ne aveva bisogno anche lui, probabilmente, di tornare a essere Mou. Quale posto migliore di Roma? Una città che vive di calcio e che poco ha raccolto nella sua storia dal calcio. Mourinho fa bene alla Roma e la Roma a Mourinho. La fame, concetto alla base del lavoro dello Special One, che nella Capitale "gioca" a essere per il bene della Roma il Normal One che non è. Che "chiede scusa" a mogli e fidanzate dei calciatori se gli rimanda a casa i partner il pomeriggio seguente una lunga trasferta, perché prima di tutto c'è la professionalità e l'attenzione anche alle piccole cose, come evitare di sottrarre al sonno dei suoi ragazzi la mezz'ora di macchina da Trigoria per tornare a casa di notte.
Il miglior motivatore
«Bisogna stargli dietro, altrimenti non giochi», ha detto di lui Gianluca Mancini. «Esigente, ma alla mano», ha detto Zaniolo. Ha «bisogno di amare» i suoi giocatori, il miglior motivatore del mondo, o come qualcuno sostiene "psicologo". Perché in una città dove in passato gli allenatori hanno spesso fatto riferimento a un problema mentale della squadra per spiegare i risultati negativi, l'impatto di Mourinho su Roma e sulla Roma è davvero quello di quando si dice: ci vorrebbe di uno bravo. «Di Francesco e Fonseca hanno denunciato un problema senza però trovare la soluzione», sostiene Gianluca Panella, psicologo dello sport e psicoterapeuta. Diversi giocatori della Roma rivoluzionata negli intenti e nei risultati, tra l'altro, c'erano anche l'anno scorso e alcuni anche da prima: «Si può dire che Mourinho sia più bravo dei predecessori? La carriera ha un peso, ma direi che come approccio psicologico sì». Può sembrare insolito interpellare un dottore se le cose vanno bene, ma con l'incisività di Mourinho in questa Roma è stata talmente forte che è diventata un tema, un valore aggiunto: «Non è insolito, non deve esserlo. Spesso in passato nei momenti difficili della Roma abbiamo contattato quella fragilità e quello scollamento dovuto alle difficoltà fisiche, agli infortuni ma anche alla mancanza di coesione di squadra, elemento imprescindibile. Mourinho ha puntato sulle dinamiche di gruppo, sul team building, fin dal primo giorno. È solo un bene sensibilizzare sempre più il mondo sportivo rispetto alla doverosa e rispettosa attenzione che bisognerebbe fornire agli aspetti psico-emotivi degli atleti. Alle ultime Olimpiadi spesso si è parlato di aspetti mentali, di ansia, di paura di scendere in campo e delle vittorie degli italiani, arrivate anche grazie al lavoro celato, trasparente, da dietro il palco, ma determinante di un esperto in ambito psicologico».
E secondo il dottor Panella sembra valere anche per la Roma: «Si mette in luce un'ottica preventiva-continuativa piuttosto che curativa-occasionale come spesso accade nel mondo dello sport. Con questa sequenza di risultati positivi consecutivi la Roma sta iniziando a prendere forma come un quadro d'autore e non importa il punteggio, ma il modo in cui esprime il suo valore e rigenera la fiducia che serve nello sport e che poi è insita nel dna dei romani e romanisti. Appare evidente come davanti la tavolozza dei colori di Mourinho abbiamo più o meno gli stessi colori dello scorso anno, ma erano un po' sbiaditi dal contesto ed ora è lui che la tiene in mano con determinazione e sta cambiando proprio il modo di gestire le singole potenzialità di ogni calciatore. Grazie a questo allenatore, accolto con una risonanza positiva da tutti, il singolo giocatore narcisisticamente si sente più capace. Inoltre, non va dimenticato che è tornato il fattore campo, o meglio i tifosi, che anche a Salerno hanno sostenuto la squadra. L'ambiente è coeso».
La motivazione come base, il tecnico ne fa un modus operandi: «Mourinho - prosegue Panella - nel suo immaginario considera il giocatore come un elemento grezzo che se equilibrato nel tempo diventa un brillante al servizio della squadra e probabilmente riuscirà in questo intento. Si sta delineando ormai l'idea che lui sia lo psicologo della squadra e quindi la Roma non ne avrebbe bisogno». L'emblema, in questo senso è il siparietto durante le sostituzioni nel finale della gara di Salerno: «La richiesta tecnica e di posizionamento, "Vorrei che tu facessi questo per me!" arriva in primis attraverso un elogio al singolo: "Vai sei forte, tranquillo!", quindi un sostegno psico-emotivo. Se vale anche durante gli allenamenti o dentro gli spogliatoi? Non conta per un calciatore solo il rinforzo verbale bensì anche un solo sguardo complice o un contatto attraverso un appoggio sulla spalla, come stiamo vedendo in foto e video di questi primi mesi di Mourinho alla Roma. Ciò sembrerebbe abbia poco conto ma non è così a mio parere, anzi nel tempo acquisisce una valenza positiva per l'autostima della squadra».
Ma l'autostima deve andare di pari passo all'equilibrio, e trovare una sintesi più realista del re. In queste settimane l'allenatore della Roma ha voluto mantenere un profilo basso, anche per tenere bassa la pressione sulla squadra: «Credo sia una tecnica e credo sia anche giusta, nel senso che può portare a risultati perché le pressioni e anche le aspettative sono minori. Tra l'altro riflette anche la strategia comunicativa della famiglia Friedkin, che opera senza clamori e ottiene i risultati attraverso il lavoro. Il low profile è come un "cappello" per la squadra, una caratteristica del lavoro di Mourinho che ritorna in tutta la sua carriera. Lavora sulla fiducia e sul rapporto con il singolo nella collettività. Ricorda un po' Capello in questo senso: lavorò su Samuel, Tommasi, Antonioli, Zanetti. Tenere un profilo basso significa anche maturazione, anche di Mourinho, che solitamente non passa per essere un modesto, perché può permetterselo e perché ama l'attenzione mediatica. Qui a Roma, tra entusiasmi e depressioni facili, però, fa bene a tenere i piedi per terra, che non significa non avere fiducia nei propri mezzi, ma volare alla giusta altezza». Che, poi, è pur sempre volare.
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