La scomparsa di Giubilo: quel che resta di un maestro
Se n'è andato un uomo meraviglioso, rimane l'eredità di un giornalista che ha reso bello un mestiere: lascia un patrimonio professionale che ognuno di noi dovrà tramandare
Descrivere quello che è stato Gianfranco Giubilo meglio di quanto abbia fatto ieri Piero Torri sulle colonne di questo giornale credo sia davvero difficile. Piero ha avuto la fortuna, o più precisamente se l'è guadagnata, di accompagnarlo lungo un arco di esistenza più lungo di quasi tutti quelli che hanno avuto l'onore e il piacere di condividere qualche tratto di vita con Gianfranco, ovviamente familiari esclusi. Dunque non credo davvero di poter aggiungere altro parlando dell'uomo meraviglioso e del fantastico professionista che è stato. C'è però un aspetto che vorrei sottolineare e che riguarda tutti quelli che fanno questo mestiere più o meno degnamente. Se si potesse infatti di accostare alla parola "giornalismo" un nome e un cognome, "Gianfranco Giubilo" sarebbe sicuramente uno dei primissimi nomi che ogni giornalista romano farebbe. Gianfranco è stato "il" giornalismo e con un così fulgido esempio quotidiano la sua impagabile lezione non corre il rischio di andare dispersa. Per il rigore che aveva nel discernimento di una qualsiasi tematica sportiva e su qualsiasi disciplina. Per la competenza enciclopedica che era molto più estesa rispetto ai confini di un campo di calcio: ogni cronista che ha lavorato con lui, soprattutto quando internet era ancora una parola poco conosciuta, sa che non c'era bisogno del vocabolario o dell'enciclopedia quando nei paraggi c'era Il Maestro. Lui era il nostro Google, una Wikipedia che non aveva bisogno di riscontri, che si trattasse di una parola del dizionario ai più sconosciuta, di un personaggio della letteratura, di un campione di uno sport, del regista di un film: la sua risposta era cassazione.
Era un uomo di straordinaria cultura e, nonostante l'apparenza ciarliera, anche di poche parole. Quando andava allo stadio, abitudine che ha protratto il più possibile da vecchio cronista che amava vedere con i suoi occhi, portava con sé sempre un saggio, un libro, un romanzo o magari l'articolo di quel giornale che non aveva fatto in tempo a terminare la mattina. E in attesa del fischio d'inizio si immergeva nella sua lettura. Era un uomo di un'umanità straordinaria e questo faceva di lui un giornalista ancora migliore. E aveva l'umiltà incrollabile dei grandi: in redazione, in attesa dell'arrivo degli altri, si smazzava magari il lavoro che nessuno voleva fare. «Gianfra', quel notiziario lo avrebbe fatto qualcun altro». «Vabbè, stavo qui...». E tutto con quell'ironia romana così sofisticata con cui smontava l'arrogante e confortava il sapiente. E quando dopo cinquant'anni di servizio Il Tempo non gli rinnovò il contratto di collaborazione, il direttore di quel periodo nero non ebbe la sensibilità di comunicarglielo di persona, ma gli fece recapitare una fredda lettera dell'amministrazione. Gianfranco non batté ciglio, ma tenne quel foglio con la busta originale nel cassetto fino all'ultimo giorno di servizio. Ogni tanto la tirava fuori, la mostrava a chi gli chiedeva come fosse possibile che qualcuno avesse deciso di rinunciare alla sua competenza: «Sta scritto qui». Ma dall'alto della sua inderogabile rettitudine morale non diede mai la soddisfazione a nessuno di lamentarsene. Se ne andò così, salutando tutti con un sorriso. Come ha fatto nel giorno del suo compleanno, un paio di giorni fa. Lasciando a chi l'ha conosciuto l'eredità di un patrimonio professionale che adesso ognuno di noi si sentirà in dovere di tramandare.
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