AS Roma

Abel Balbo: "Eusebio Di Francesco è l'uomo giusto per la Roma"

L'ex attaccante giallorosso nell'intervista al Romanista: "È un tecnico bravo e intelligente. I giallorossi stanno recuperando, e possono battere il Real Madrid"

PUBBLICATO DA Fabrizio Pastore & Piero Torri
16 Novembre 2018 - 13:00

C'è stato un tempo in cui un quinto posto veniva accolto con soddisfazione. C'è stato un tempo in cui il paradiso poteva soltanto attenderci. È stato il tempo di Balbo, primo grande acquisto dell'era Sensi. Tassello essenziale per le fondamenta del trionfo di inizio millennio, quando dopo due anni di esilio è tornato a chiudere il cerchio. Conquista dell'Eden alla quale Abel ha voluto partecipare a ogni costo. «Lo scudetto è stato costruito poco a poco fin dal mio primo anno, non potevo mancarlo», ci dice lui, raggiunto telefonicamente a Detroit, dove resta spesso per motivi familiari e dove ha incontrato la Roma dei giorni nostri, durante la tournée americana dell'estate 2017. «Ma la mia dimora ideale è Roma», ci tiene a ribadire iniziando a spargere l'ingrediente fondamentale della nostra chiacchierata: tutto l'amore che ancora nutre per il giallorosso. 

Hai ancora casa nella Capitale?
«Certo, vivo lì la maggior parte dell'anno, vicino c'è anche Aldair».

Lo vedi ancora?
«Spesso. Persona eccezionale Alda, anche se dopo tanti anni in Italia ancora si esprime in modo strano. Continuo a non capire un cazzo quando parla».

Senti anche Fonseca?
«Fa il procuratore, è sempre incasinato. Io ho scelto un'altra strada».

Non volevi fare l'allenatore?
«Sì, è stato il mio primo orientamento quando ho smesso, ma poi ho dirottato su altro».

Su cosa?
«La famiglia. Mi dedico ai miei figli: sono a Detroit per loro. Uno si è laureato qui, un'altra fa pattinaggio sul ghiaccio».

Nessuno ha seguito le orme del papà?
«Macché. Calcio zero a casa mia, sono appassionati di hockey».

Tu però continui a seguirlo.
«Sempre. È la mia vita».

E la Roma?
«La Roma è una passione, un amore. La squadra a cui sono più legato».

Più dell'Udinese che ti ha portato in Italia?
«A Udine sono stato benissimo. Arrivare lì è stata la mia fortuna: ero molto giovane, appena sposato e hanno accolto me e mia moglie come figli. Sarò eternamente grato ai friulani. Ma Roma...».

Continua.
«Roma è qualcosa che ti entra dentro e non ti lascia più. Perciò ho scelto di restarci anche a fine carriera».

Dopo la sosta c'è Udinese-Roma, la tua partita del cuore.
«Anche la mia partita del destino, quella in cui ho esordito».

Ricordi come andò?
«Finì 1-1, segnò Tempestilli, incredibile: credo l'unico gol della sua carriera» (ride, ndr).

Era un calcio diverso dalle tue abitudini.
«Il campionato italiano è sempre stato durissimo, all'epoca anche più di ora: i migliori giocatori del mondo erano in Serie A. E i difensori picchiavano forte».

Vita dura per un attaccante di una squadra di provincia.
«L'Udinese non era una realtà organizzata come adesso, i Pozzo erano arrivati da poco, anche se qualche buon calciatore già c'era: Sensini, Gallego, Branca, De Vitis, ma l'obiettivo era la salvezza».

Anche nella stagione in corso si soffre da quelle parti: che partita sarà per la Roma?
«Una gara complicata. Loro sono con l'acqua alla gola e potrebbero trovare nuovi stimoli dal cambio di allenatore».

Quello della Roma lo conosci bene.
«Eusebio è un tecnico molto bravo, è intelligente, la guida giusta. Ha alternato risultati ottimi ad altri sconcertanti, ma aveva bisogno di tempo per lavorare sui nuovi».

Quando giocavate insieme ti aspettavi che diventasse un tecnico importante?
«Non sono sorpreso: è un uomo di carattere e ha sempre avuto predisposizione per il lavoro tattico».

Di Francesco ha dimostrato di puntare molto sui giovani.
«Lui e la società. Ne sono arrivati tanti, altri sono cresciuti a Trigoria, ma bisogna saperli aspettare».

Chi ti convince di più?
«Sono tanti quelli bravi: Lorenzo Pellegrini mi piace moltissimo. Ma anche Ünder e Kluivert, che stanno dimostrando di avere grandi colpi. E poi c'è Schick...».

Cosa gli manca per sbocciare?
«La cattiveria, quella rabbia che ha Icardi, tanto per fare un esempio. Patrik è dotatissimo: ha mezzi tecnici straordinari e un gran fisico, ma deve rafforzare un carattere che per ora appare fragile».

Questione di età?
«Può darsi. E lo spero, perché secondo me è in grado di fare grandi cose. Ma mi fido di Eusebio: saprà guidarlo, come ha fatto con altri».

Il centravanti titolare è indiscutibilmente Dzeko.
«Ora è giusto così: ha un'esperienza differente, è un trascinatore».

E ha segnato 80 gol nella Roma, arrivando a 7 reti da un certo Balbo nella classifica all time.
«Mi supererà presto e sono convinto che segnerà oltre cento gol in giallorosso. Lui è davvero fortissimo, anche se io preferisco un'altra tipologia di attaccante».

Quale?
«Uno alla Icardi».

Cosa ha più degli altri?
«Adoro la sua garra, vive per il gol, lo annusa, lo cerca con tutta l'anima e la squadra gioca per lui».

A Dzeko però ti lega un precedente: il primo gol di entrambi in una vittoria sulla Juventus.
«Una sensazione stupenda. Non si può chiedere di meglio che segnare per la prima volta sotto la Sud e contro un'avversaria simile. Forse all'epoca la rivalità con i bianconeri era anche più sentita di oggi».

Ti ricordi quella rete?
«Come potrei dimenticarla? Ricordo le discussioni in allenamento, quando Mazzone mi diceva di aggredire il primo palo e io ribattevo che preferivo partire dal secondo».

Come la prese il mister?
«Alla fine mi disse "fai un po' come te pare", lo feci, segnai e glielo dissi esultando, ma era felice anche lui della scelta col senno di poi».

Che rapporto avevi con lui?
«Splendido. Era come un padre, ma come fai a non voler bene a uno come Carletto?».

Con altri allenatori non è andata allo stesso modo.
«Con Zeman male, ma ormai è storia vecchia, lui ha fatto la sua carriera e io la mia».

L'episodio scatenante col Bari dopo l'espulsione di Konsel.
«Sì, è risaputo. Lui mi sostituì e io lo mandai affanculo. Come hanno fatto anche altri dopo di me, senza lo stesso clamore».

E a fine stagione l'addio.
«Mi chiamò il ds, dicendomi che il tecnico aveva piani che non prevedevano la mia presenza: ne presi atto e andai via».

Poi sei tornato con Capello.
«Volevo a ogni costo rientrare, Roma era casa mia e sentivo che la vittoria del titolo era vicina: non volevo mancarla per nulla al mondo».

Decisivo fu Batistuta. È vero che a tua volta sei stato determinante per il suo arrivo?
«Vi racconto un episodio che credo non sia mai diventato di dominio pubblico. Si sapeva che Bati avrebbe lasciato Firenze, lo voleva l'Inter come la Roma. Franco Baldini lo cercava insistentemente, ma lui non rispondeva. Finché un giorno non glielo feci trovare a casa mia».

E insieme avete vissuto una stagione esaltante.
«Meravigliosa. Io giocavo pochissimo, ma lo scudetto resta il ricordo più bello della mia carriera. Una festa pazzesca, il coronamento di un sogno costruito fin dal primo anno, anche se di quella squadra restavamo solo io e Aldair. Ma lo avrebbe meritato anche Giannini».

Pochi risultati in quei primi anni, anche se c'erano giocatori importanti.
Il Principe, Pluto, Haessler, Mihajlovic, Caniggia, Carboni, Cervone, io stesso: non eravamo scarsi. Ma il primo anno andò tutto male, risentimmo anche noi della crisi societaria, c'era confusione».

Come avvenne il tuo trasferimento alla Roma?
«Feci un'ottima stagione con l'Udinese ed ero molto corteggiato. Mi voleva il Milan, ma con l'Inter la trattativa andò molto avanti».

Poi cosa successe?
«Andai con il ds friulano Mariottini a pranzo dal presidente Pellegrini, la moglie mi fece scrivere qualcosa su un foglio e non se ne fece più nulla. Pare leggesse il carattere dalla grafia e mi bocciò per quello. Al posto mio presero Pancev: forse la signora non era così esperta».

Rimpianti?
«Zero. Forse ho vinto poco, ma quello scudetto è stato una gioia immensa che mi ha ripagato di ogni sacrificio, anche di qualche soldo in meno in tasca».

Negli Anni 90 gli ingaggi erano molto diversi da quelli attuali.
«Lascia stare. Certe pippe di adesso guadagnano il doppio di noi».

Avresti potuto avere stipendi più alti anche all'epoca?
«Senz'altro, se avessi detto sì alla proposta della Juve».

Quando ti cercò?
«Dopo la seconda stagione a Roma. Mi chiamò Moggi, ma ero già legatissimo a squadra e città. E sinceramente mi dà molta più soddisfazione aver vinto in giallorosso».

Con i bianconeri non era la sola rivalità di quegli anni.
«Contro di loro era una sfida accesissima, anche perché all'epoca avevamo poco altro. Ma il derby era ancora più infuocato, credo molto più di adesso».

E anche a quella partita ti lega un bel ricordo.
«Il primo gol nel 3-0, sempre sotto la Sud, una gioia immensa».

Vi davano tutti per spacciati.
«Fu la nostra forza. C'era un quotidiano che ogni giorno pubblicava il confronto fra uno di noi e uno di loro, descrivendoli tutti più forti. Mazzone ci portava quelle pagine tutte le mattine: ci siamo caricati in modo straordinario e sul campo li abbiamo schiantati».

In questi giorni c'è un altro derby dalla parte opposta del globo, la tua. Tifi Boca o River?
«Ho giocato in entrambe, ma tifo Newell's Old Boys. Partita importantissima per loro, non per il mio cuore. Ma credo vinca il River: mi sembra più squadra».

E per gli argentini che giocano oggi nella Roma fai il tifo?
«Ovviamente. Pastore e Perotti sono due giocatori che mi piacciono tantissimo, entrambi forti nell'uno contro uno, una rarità nel calcio di oggi. Me li terrei stretti perché - anche se alle prese con qualche problema fisico in questa fase - sono due indiscutibili talenti».

Parli dei giallorossi come di una squadra di grande qualità.
«Lo è. Ma sono arrivati tanti giocatori nuovi rispetto all'anno scorso, molti giovanissimi e purtroppo all'inizio le cose non sono andate bene. Ora il gruppo mi sembra di nuovo in marcia».

Dove può arrivare?
«Per come si sono messe le cose deve puntare a stare fra le prime quattro, traguardo fondamentale. Le milanesi sono ancora dietro tecnicamente, ma si stanno attrezzando per tornare».

E in Europa?
«Difficile dirlo. Nelle coppe entra molto di più l'aspetto della casualità. Importante finire bene il girone e sperare in un sorteggio fortunato negli ottavi».

Con il Real Madrid in ballo c'è il primo posto.
«La Roma in casa può battere chiunque, come ha già dimostrato nell'ultima stagione. Ma non bisogna mai dimenticare che ci sono almeno cinque, sei squadre più attrezzate per arrivare in fondo».

Anche tu hai sfidato le merengues, in una data famosa per eventi più tristi.
«Chi se lo scorda. L'11 settembre del 2001: entrai nel finale e un mio tiro colpì la traversa. Perdemmo 2-1, ma quello era un altro Real».

Abel Balbo con la maglia della Roma nel 2001/2002 @LaPresse

Quello attuale ha vinto tre Champions consecutive.
«Ma ha perso Ronaldo e non è poco. I giallorossi possono farcela».

Sarà Cristiano il capocannoniere di questa Serie A?
«No. Icardi».

Ci risiamo con gli argentini.
«Non lo dico perché siamo connazionali. La sua squadra gioca per lui, in area è un killer».

Come erano Batistuta e Balbo. È vero che facevate clan all'epoca dello scudetto?
«In un gruppo di venticinque persone è normale che ci si scelgano compagni coi quali avere rapporti più stretti, non si può andare d'accordo con tutti».

Lo spogliatoio era diviso?
«Non lo definirei diviso, c'erano semplicemente normali discussioni, come accade ovunque. Non ricordo grandi problemi».

Eppure di personalità ce n'era in abbondanza.
«Moltissimi giocatori carismatici: Bati, Aldair, Emerson, Samuel, Tommasi, Cafu, Candela e molti altri. Lo stesso Totti anche se giovane era già un giocatore importante».

E Balbo?
«Nell'anno dello scudetto ho avuto un ruolo marginale in campo, ma nello spogliatoio ero ascoltato e rispettato. Ma mi sono sempre sentito parte della famiglia romanista».

Ti piacerebbe uno stadio della Roma?
«Magari. Gli stadi in Italia fanno schifo, ci sarebbe bisogno di qualcosa di più moderno. Senza considerare i ricavi che fornirebbe al club, rendendolo più ricco e quindi più competitivo. E poi immagino che bolgia: giocare col pubblico attaccato al campo darebbe una marcia in più alla squadra».

Per ora ti tocca seguirla in tv dagli Stati Uniti.
«Ancora per poco. Il mese prossimo torno in Italia: a Udine, alla festa di un club che porta il mio nome. E soprattutto a Roma. Casa mia».

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