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Leader per il basket a Roma, come fu Falcao nel calcio: Larry Wright compie 70 anni

Il cestista statunitense guidò il Bancoroma, oggi Virtus Roma, verso l’unico scudetto nel basket del dopoguerra, nel 1983 e cioè la Coppa dei Campioni del 1984.

PUBBLICATO DA Luca Pelosi
23 Novembre 2024 - 14:18

Un anno e mezzo fa, è tornato a Roma. Si è commosso quando ha abbracciato il suo allenatore, Valerio Bianchini. Subito dopo, ha pianto quando ha abbracciato i suoi ex compagni di squadra. Ancora leader, 40 anni dopo, aveva una parola precisa per ognuno di loro. E li ha ringraziati tutti in pubblico. Pochi giorni dopo se l’è vista brutta, coinvolto in un incidente stradale, ma si è ripreso e oggi festeggia 70 anni. E tutta Roma deve festeggiare Larry Wright, perché è di lui che stiamo parlando, per ciò che ha dato alla città. L’unico scudetto nel basket del dopoguerra, nel 1983, il picco nella storia degli sport di squadra in città, cioè la Coppa dei Campioni del 1984.

Nato in Louisiana quando il razzismo era più che tangibile, un padre mai conosciuto, sei fratelli, due sorelle, una madre che è stata il suo unico, vero, idolo. Doveva lavare i piatti, ma ne lavava uno solo, sotto il quale nascondeva quelli sporchi, per andare a giocare a basket. “Gioca a basket, se vuoi – gli disse la mamma – ma se non diventerai forte, dovrai lavare i piatti per tutta la vita”. Non se l’è mai dimenticato ed è diventato fortissimo. Non ha mai dimenticato neanche i soprusi e la sua vita è una continua reazione ai soprusi. Aveva vinto il titolo NBA con i Washington Bullets, oggi Wizards, era passato a Detroit, ma siccome i Pistons avevano preso Isiah Thomas si era offeso e aveva smesso. Non aveva neanche 30 anni. Valerio Bianchini nel 1982 lo convince a venire in Italia e la sua storia cambia. Cambia la storia di una città, che trova in lui la stessa guida che Falcao era stato nel calcio.

Come Falcao, capisce prima di tutti che il Bancoroma può vincere il campionato. "Dopo poche partite ho capito che la squadra era molto forte e potevamo farcela". Fa vedere cose che nessuno aveva mai visto prima. La velocità con cui fa cose che altri giocatori neanche possono immaginare, la leadership. Non usa tanto le parole, come magari riesce meglio a Falcao, ma usa l’esempio. È il primo ad arrivare agli allenamenti, l’ultimo ad andarsene, si arrabbia continuamente se le cose non vanno come dice lui. Alza la tensione, troppo fuori dal campo, dove le sue nevrosi lo rendono difficilmente gestibile, mai troppo in campo, dove vince sempre il suo sorriso.

All’esordio con Cantù viene travolto da Jim Brewer, si rialza sanguinante, sorride e vince la partita. A Bologna palleggia per quasi 30 secondi, aspetta l’ultimo utile prima della sirena e fa partire il tiro della vittoria. Lo farà più volte. Se è spalle al muro, come dopo gara uno di semifinale persa contro Cantù, tira fuori il meglio di sé. Se per fermarlo, nella finale scudetto, Dan Peterson gli mette contro Vittorio Gallinari, alto due metri, nella partita decisiva non si fa problemi a passare il pallone ai compagni. Sa che può fidarsi. E loro sanno che possono fidarsi di lui. La sublimazione arriva il 29 marzo 1984 a Ginevra, nella finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona. Fino a pochi giorni prima era in dubbio per una misteriosa microfrattura. Ma chi lo conosceva bene sapeva che non sarebbe mai mancato. Poteva diventare il primo giocatore a vincere NBA, campionato italiano e Coppa Campioni. Chiuso il primo tempo sotto di dieci punti, sente uno degli americani del Barcellona, Mike Davis, che gli dice: “Larry, oggi niente premio”.

Si arrabbia, urla cose che nessuno capisce. E che lui ha raccontato così: “Nessuno pensa che ce la possiamo fare. Sono il leader della squadra, sento di dover fare qualcosa. Negli spogliatoi dico al coach e ai compagni di fidarsi di me: ce la facciamo, saremo campioni d'Europa. Dobbiamo rientrare in campo e non commettere più gli errori del primo tempo. L'esperienza del college mi ha insegnato che una partita di basket non è mai finita. L'opera non finisce finché non canta la cicciona, cioè il soprano. Bisogna correre, fino a quel momento l'abbiamo fatto male. Quella era una squadra che sapeva di avere bisogno del contributo di tutti”.

Ha preso il pallone e non l'ha più fatto vedere a nessuno, compagni o avversari che fossero. Ha guidato la squadra alla rimonta, al pareggio, al sorpasso.
Ha stampato in città il sorriso che ha sempre messo in campo. Quello che gli si può regalare oggi per i suoi 70 anni

 
 

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