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Israele, il Beitar Gerusalemme vuole inserire "Trump" nella sua denominazione

La società di Gerusalemme vuole nel suo nome il cognome del presidente americano: «Ha mostrato amore per noi ed è stato in grado di fare la storia»

16 Maggio 2018 - 08:53

Il Beitar Gerusalemme ha deciso di omaggiare l'inaugurazione dell'ambasciata americana, inserendo il nome "Trump" nella propria denominazione. Un tributo al presidente degli Stati Uniti che ha fatto e continuerà a far discutere, complice l'attuale infuocata situazione nel Medio Oriente e le immagini scioccanti delle ultime ore. «Il presidente del club, il proprietario Eli Tabib e il manager esecutivo Eli Ohana hanno deciso di aggiungere il nome del presidente americano per la capacità riscontrata nel fare la storia – si legge su una nota pubblicata sul sito ufficiale del nuovo Beitar "Trump" Gerusalemme – Amiamo Trump e vinceremo. Per settant'anni abbiamo aspettato un riconoscimento ufficiale, fino alla coraggiosa mossa del presidente che ha mostrato coraggio e amore verso la nostra gente».

Una scelta discussa che potrebbe però non concretizzarsi, almeno in tempi relativamente brevi, a causa di alcuni ostacoli come ad esempio l'approvazione della Federazione locale e soprattutto il fattore che il marchio di Donald Trump sia ormai registrato in Israele da circa un decennio.

Eventualmente quindi il Beitar dovrà pagare una penale, diventando ufficialmente il Beitar "Trump" Gerusalemme. La notizia ha sollevato diverse polemiche, riportando sotto la luce dei riflettori l'operato del club e soprattutto della sua tifoseria. Fondato nel 1936, infatti, il Beitar è sempre stato caratterizzato dalle posizione estremamente conservatrici di dirigenza quando dei suoi tifosi, essendo nato come formazione del Partito revisionista sionista. Non è raro difatti, prendendo posto tra le mura del Teddy Stadium, sentire cori razzisti nei confronti di calciatore neri o di religione musulmana, né tantomeno osservare simboli legati ai movimenti di estrema destra. «Il nostro club non può essere distrutto, i musulmani non dovrebbero giocare per il Beitar», il motto di molti tifosi del Beitar che ha contraddistinto la stagione 2012/2013. In quella occasione infatti l'acquisto dei giocatori ceceni di religione musulmana, Dzhabrail Kadiev e Zaur Sadayev, fu duramente contestato dai tifosi gialloneri tanto da portare entrambi ad abbandonare il club dopo pochi mesi viste le proteste de "La Familia", lo zoccolo duro della tifoseria del Beitar che decise di non popolare gli spalti quando i due erano presenti sul campo. Per non parlare ad esempio delle bandiere del Kach Party, partito ultranazionalista messo fuori legge dal 1994 per l'evidente incitamento al razzismo, oppure al ripetuto lancio di banane, tra allenamenti e partite ufficiali, che portarono il nigeriano Ndala a lasciare il Beitar nel 2005 dopo neanche cinque partite. Episodi magistralmente narrati nel documentario "Forever Pure", in cui per l'appunto viene raccontato e analizzato il desiderio di purezza della formazione giallonera e della sua tifoseria.La scelta di omaggiare il presidente americano inserendo il nome "Trump" nella denominazione ufficiale del club, è stata quindi vista da molti come l'ennesimo episodio sopra le righe del Beitar Gerusalemme per infuocare ulteriormente i rapporti già oltremodo tesi con le popolazioni limitrofe di religione musulmana.

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