Lo psicologo dello sport: "Per ripartire serviranno coesione e nuovi equilibri"
Panella: "I giocatori che non sono partiti durante il lockdown hanno dato prova di unità, la chiave per superare gli ostacoli. Senza pubblico è dura"
La ripartenza del calcio è realtà. Un dibattito che è sembrato infinito durante i mesi di pandemia e di lockdown. L'imperativo del mondo del pallone è stato uno solo: riprendere a tutti i costi. Sì, si è parlato parecchio di protocolli e sicurezza (ci mancherebbe), ma si è posto relativamente poco l'accento su "come" riprendere. In particolar modo sullo stato d'animo di chi dovrà farsi interprete in campo di uno sport che nella migliore delle ipotesi, con le restrizioni dovute alla diffusione del coronavirus, sarà la brutta copia di quello che tanti appassionati apprezzano. Uno stato d'animo inedito, visto che inedito era fino a qualche mese fa il lockdown del mondo, e che non potrà non avere dei risvolti da tutti i punti di vista. Per approfondire il tema delle conseguenze psicofisiche del lungo stop e della ripresa abbiamo sentito il parere di Gianluca Panella, psicologo dello Sport.
Vista l'unicità del problema vissuto, quale può essere alla ripresa l'impatto a livello psicologico del lockdown su un atleta?
«Durante l'isolamento i calciatori si sono allenati a casa ma il training domiciliare non può esser paragonato a quello on-field, anche perché ci sono dei bioritmi che variano soprattutto a livello percettivo, ovvero nella modalità di sentire il mondo circostante. Durante l'isolamento vi era una routine più o meno stabilita nonostante durante la fase 1 vi fosse la tendenza ad alterare soprattutto il ciclo sonno-veglia, ed un po' meno l'alimentazione. Le migliori risposte sono arrivate da coloro i quali possedevano maggior capacità di autoregolazione di sé, di adattamento, di gestione delle emozioni e dell'"imprevedibilità"».
Alcuni calciatori si erano dichiarati contrari a ripartire, manifestando anche delle paure per la salute propria e dei familiare.
«L'emergenza sanitaria ci ha messo di fronte inevitabilmente e a livello internazionale con una gestione complessa e ancora in via di sviluppo sia a livello scientifico che in merito alle procedure da adottare. Un dramma sociale. È inevitabile provare ansia rispetto ad un nemico invisibile ed aggressivo. Nel calciatore la gestione di questa tensione in campo può tradursi non solo in un maggior controllo del proprio corpo e dei suoi equilibri muscolari tendinei e di movimento, ma soprattutto nel dover tradurre a livello mentale, qualcosa che prima poteva essere affidato all'intuito e all'esperienza. Tutto ciò può influenzare quindi la prestazione. La paura di contagiare i propri familiari è di nuovo una dimensione inevitabile, legata al senso di responsabilità di ognuno e alle specifiche situazioni di emergenza sanitaria che le diverse famiglie possono vivere (bambini, anziani, immunodepressi). Per questo è importante che nessuno venga lasciato solo nella gestione della propria responsabilità personale e professionale».
La Bundesliga ha fatto da traino per tutta Europa. Cosa le è parso vedendo le prime partite?
«Balzano agli occhi i diversi giocatori che si sono infortunati con distorsioni, distrazioni muscolari: sia perché hanno ricominciato prima degli altri, sia perché a mio parere non hanno avuto il tempo di esser osservati mentre si allenavano prima individualmente e poi in gruppo. La mancanza di flessibilità e sicurezza negli appoggi (grounding) può causare un indebolimento del sé psico-corporeo, quindi una scissione mente-corpo».
C'è modo di fare prevenzione in questo senso?
«Va sempre sottolineata in questo senso l'importanza nel valutare la postura dei giocatori, perché in questi mesi di quarantena potrebbe esser cambiata. Bisognerebbe portare nel tempo i calciatori a ri-costruire delle trame di equilibrio interno attraverso un lavoro dalla mente al corpo e viceversa, trovare una modalità di riassestamento in campo, un po' come accaduto agli italiani lavorando in smart-working».
Bisogna trovare un nuovo equilibrio.
«Sì, perché inconsciamente il calciatore ha voglia di compensare e recuperare il tempo perduto e le pressioni esterne ed il tour de force non lo aiutano. Ho notato che i calciatori hanno la tendenza a stra-fare e bisogna contenerli attraverso un lavoro con esercizi mirati. Altri hanno paura del contatto, del contrasto, ecco perché è importante che vi sia la reale comprensione dell'altro e delle dinamiche di gruppo che si stanno riattivando. Le cinque sostituzioni, poi, andranno sfruttate assolutamente per dosare e utilizzare al massimo le competenze, perché gradualmente bisogna progredire e saper accettare i risultati ed i propri limiti. Conteranno parecchio anche idratazione, sana alimentazione e sonno regolare».
Tornare in campo senza pubblico quanto condizionerà i calciatori?
«Sarà dura, non solo per lo spettacolo. Sentire le voci dei calciatori come se tifassero per se stessi o per il compagno dà già un'idea della differenza. Il campionato doveva andare avanti e lo spettacolo doveva continuare, ma tutti ci stiamo rendendo conto, anche i protagonisti in campo, dopo le prime partite che c'è una resa forse del 50% globalmente della squadra».
La Serie A ha scongiurato il "rischio" ritiro continuato, eppure molti giocatori e molti club hanno dato prova di compattezza e unità d'intenti (tra cui la Roma). Questo può fare la differenza?
«È la chiave di tutto. Ne abbiamo una prova dalla finale di Coppa Italia: il Napoli che ha lavorato insieme in Italia è sembrato più motivato della Juventus, che qualche giocatore l'ha mandato in giro per il mondo. Cristiano Ronaldo che si è andato ad allenare a Madeira è tornato al 30%, non basta essere CR7... Credo che il fatto che i giocatori della Roma non si siano mossi durante la quarantena può fare la differenza. Stare in gruppo e sentirsi uniti aiuta a condividere e a superare insieme gli ostacoli che inevitabilmente ora ci potranno essere per impegni intensi ravvicinati».
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