Da Luis Enrique a Mancini ct: la rivoluzione si è compiuta
A Roma il tecnico della Spagna pareva un marziano, oggi certi principi sono condivisi. E l’Italia ci fa innamorare, un Europeo come questo non è casuale
Il seme gettato era buono, probabilmente era il terreno a non essere adatto. Quando 10 anni fa i dirigenti della Roma dell'ancora sconosciuta cordata americana che aveva rilevato il pacchetto di maggioranza della società dalle mani della famiglia Sensi scelsero Luis Enrique per la revoluciòn in salsa giallorossa, avevano visto lungo. Ma non basta scegliere il generale giusto se gli dai poi le armi che si inceppano e magari una truppa poco combattiva. Ma più in generale la rivoluzione si è compiuta da Luis Enrique a Luis Enrique, dal 14 luglio 2011, quando il "marziano" fu presentato a Trigoria, fino alla semifinale persa della dall'allenatore spagnolo contro la nazionale italiana il 6 luglio 2021: sono passati 10 anni, ma non sono passati invano. È vero, mancano ancora le soddisfazioni per la Roma e, più in generale, per il calcio italiano (almeno fino a domenica). Ma la squadra di Mancini dimostra che qualcosa è cambiato grazie all'opera di innovazione di molti presidenti e direttori sportivi del calcio italiano, dei dirigenti federali, ma soprattutto di quelli del Settore Tecnico che hanno capito come il calcio dopo Guardiola non avrebbe più potuto essere quello di prima. Inutile ribellarsi alla modernità. Nel momento in cui affronti con le tue armi tecniche un allenatore che oltre alle armi tecniche ti irretisce con il palleggio, con il possesso palla, con la profondità, con l'aggressione continua, con l'ampiezza, con le rotazioni, con l'accorciamento degli spazi a disposizione dell'avversario, con l'ampliamento dei propri, con le perfette diagonali difensive, con la continua responsabilizzazione dei giocatori verso concetti sempre più sofisticati, allora non basta più opporre una buona difesa e qualche fuoriclasse in grado di risolvere le partite.
In Spagna Guardiola ha portato avanti la sua rivoluzione nel 2008. Folgorato in Messico, dove non andò a svernare da calciatore ma già a studiare da allenatore, ammirò il calcio di Ricardo La Volpe, l'inventore della celebre Salida Lavolpiana, quel meccanismo di costruzione bassa che veniva esaltato dal movimento del centrale di centrocampo ad abbassarsi tra i due centrali di difesa con i terzini che diventano ali e tutto il resto che prende forma attraverso virtuosi sviluppi studiati in allenamento. Luis Enrique, 10 anni fa, ci provò con De Rossi, e se mancava lui ci adattava "Bibiani", come lo chiamava lui, al secolo Federico Viviani, onesto centrocampista dai piedi buoni che aveva saputo conquistare con il suo calcio semplice e raffinato l'occhio lungo dell'hombre vertical. Certo, De Rossi era un'altra cosa, ma se tardava di un minuto l'appuntamento per la riunione tecnica andava in tribuna anche lui. E se a qualcuno è venuto il dubbio che Daniele non abbia capito il senso di quella punizione e non ne farà tesoro nell'ormai lanciata carriera da allenatore non servono le parole per fargli cambiare idea: basti guardare e riguardare in loop quell'abbraccio così intenso che c'è stato a Wembley prima della semifinale di martedì sera.
Luis Enrique a Roma fallì, se ne rese conto lui per primo alzando il braccio e chiamandosi fuori. Non riuscì ad entrare in sintonia con tutto il pubblico romanista, anche se ce n'è ancora una parte consistente che ad ogni inquadratura sul campo di oggi prova un tuffo nel cuore a ripensare a quello che avrebbe potuto essere se avesse trascorso qualche anno in più su quella panchina invece di andarsene così. Ma quel germe ha lasciato qualcosa. E quello che è avvenuto in Italia negli ultimi 10 anni ne è la più clamorosa testimonianza. Non è più questione solo di alimentare il dibattito più giornalistico che calcistico delle differenze tra giochisti e risultatisti. La questione non si pone più. Volete vedere Mancini arrabbiato? Provate a guardare come cambia espressione quando il bravissimo inviato di Rai1 Alessandro Antinelli gli chiede conto di una prestazione che ha portato l'Italia ad un clamoroso e insperato traguardo, quello della finale europea appena quattro anni dopo l'umiliante eliminazione del mondiale per mano della Svezia: la domanda era sul calcio all'italiana che aveva permesso di resistere alla Spagna e poi di trionfare. Non era certo un'offesa ed era sicuramente un modo per raccontare la partita, e Mancini lo sa bene. Solo che ci ha messo tanto per far staccare gli italiani da quella idea antica, che non voleva nel commento post partita accostare la sua squadra a quell'interpretazione. Con il catenaccio e il contropiede l'Italia si è coperta di gloria in passato, ma era un calcio diverso. Questo è quello che Mancini ha tenuto a specificare: «Ogni squadra che gioca bene al calcio deve sapere attaccare e saper difendere. E quando difende non deve certo vergognarsene».
In una bellissima intervista concessa qualche giorno fa a La Repubblica, Ringhio Gattuso ha raccontato la sua folgorazione: «Quando ho cominciato ad allenare ero ancorato a certi principi. Poi un giorno sono capitato a vedere gli allenamenti di Guardiola al Bayern Monaco e poi ho parlato con lui. Da allora ho capito che non ci avevo capito niente». Oggi Gattuso è uno degli allenatori più moderni del nostro calcio, ha molte richieste e può permettersi anche il lusso di dire di no, come recentemente accaduto alla Fiorentina, tanto non resterà molto tempo senza una panchina. Inutile fare tutti i nomi degli allenatori che stanno ottenendo risultati attraverso la loro personale rielaborazione dei principi del calcio alla spagnola che poi sono diventati alla tedesca e all'inglese e adesso sono anche declinati all'italiana, anche se nel nostro caso non c'è stata un'influenza diretta di Guardiola. La scuola italiana sta diventando a poco a poco così produttiva perché ha saputo unire la bellezza del calcio posizionale alla redditività della nostra fase di non possesso. Si è passati attraverso la linea difensiva del Napoli di Sarri che pareva teleguidata a quella più individualistica dell'Italia di Mancini, inseguendo però lo stesso sogno. Attaccare, attaccare e attaccare. Quando nel campionato post lockdown si riteneva che il motivo della crescita dei goal fosse da individuare nella mancanza del pubblico che allentava la capacità di concentrazione soprattutto del dei difensori, si raccontavano storielle. L'unico motivo per cui si segna di più è che oggi le squadre non si accontentano più di speculare su un goal e provare a difenderlo. Questo straordinario lavoro culturale è stato cominciato da Arrigo Sacchi qualche anno dopo che aveva smesso di allenare, proprio per rendere sistemico ciò che aveva fatto personalmente, e nelle squadre nazionali giovanili è stato portato avanti da Maurizio viscidi, altro straordinario teorico. Sono anni ormai che nei corsi da allenatori non si parla più di ruoli ma di costruttori e invasori. Di spazi da occupare, di linee da attaccare cercando sempre la chiave per portare un uomo più in più in fase offensiva rinunciando alla superiorità numerica in fase di non possesso.
Ma tatticamente restiamo dei maestri della fase difensiva ed è qui che possiamo fare la differenza rispetto a chi, lavorando all'estero, spinge il pedale solo sull'acceleratore, senza mai frenare. Così attraverso il suo gioco a uomo, rivisitato in chiave offensiva, Gasperini ha ottenuto il suo più grande successo quando ha costretto il Real Madrid in casa sua ad affrontare l'Atalanta cambiando sistema di gioco per non rimanere invischiato nella sua morsa difensiva. Sono questi i successi del calcio italiano che andrebbero sbandierati quasi a prescindere dal risultato conseguito in campo. Una vittoria ai rigori può essere casuale, un Europeo come questo non lo è.
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