Il Muro del Canto, parla Alessandro Pieravanti: "Vi spiego il nostro rapporto con Roma"
Esce oggi "L'Amore mio non more", quarto album del gruppo romano. Marchioni e Giallini protagonisti dei videoclip di "Reggime er gioco" e "La vita è una", due brani del disco
L'attesa è finita. Esce oggi il quarto disco de Il Muro del Canto, il gruppo rock folk romano, che unisce modernità e tradizione in un'autentica voce popolare senza tempo. Si intitola "L'Amore mio non more", parla di resistenza, di tempo, di giovinezza, di affetti, di Roma. Al suo interno due grandi novità, tecnicamente parlando. Un disco, che come gli altri della band, non lascia nulla al caso, che utilizza il dialetto, la tradizione romana come elemento di coesione e nello stesso come atto d'amore verso il suo pubblico. Il disco è stato anticipato dal singolo "La vita è una", uscito lo scorso luglio, con il videoclip impreziosito dalla presenza come protagonista dell'attore Marco Giallini nei panni del custode della Palestra Popolare del Quarticciolo e dal secondo estratto "Reggime er gioco", il cui video vede protagonista Vinicio Marchioni. «Lavorare con loro è stato molto bello perché entrambi sono simboli della città e approcciano al loro lavoro e anche alla loro vita in maniera molto popolare, come facciamo noi», ha dichiarato al Romanista Alessandro Pieravanti, voce narrante e batteria del gruppo. Lo abbiamo intervistato.
Alessandro, partiamo dall'album in uscita oggi, "L'amore mio non more".
«Il titolo è abbastanza significativo. Si tratta del nostro quarto lavoro in studio e ci piaceva trasmettere due idee fondamentali: la prima è quella di un sentimento molto forte, nei confronti di tutta una serie di cose, che sono importanti nelle nostre vite, come gli affetti, il rapporto con la città e l'impegno che uno mette nel risolvere le cose che non vanno. E la seconda, un atteggiamento di resistenza nei confronti di tutto quello che non va, un sentimento, l'amore, che non muore mai, che resta forte. Questo titolo è molto rappresentativo del disco perchè come sempre trattiamo temi che vanno dai più personali, umani, sentimentali, fino a quelli più sociali, che raccontano ciò che non va nella nostra città la quale però diventa un pretesto per parlare un po' di tutta Italia».
Quali sono a livello stilistico le novità di questo quarto lavoro, rispetto ai precedenti?
«Ci sono due grandi novità: la prima è la presenza di due brani in italiano, il che è inusuale visto che abbiamo sempre utilizzato il dialetto, e poi la seconda è il fatto che abbiamo esplorato delle soluzioni stilistiche, soprattutto ritmiche nuove. Abbiamo abbandonato ritmiche e sonorità prettamente folk e siamo andati a esplorarne altre, apparentemente lontane da noi come il reggae, il reggaeton, lo ska, quindi armonie diverse che in realtà, mixate ai nostri elementi fondanti come la voce profonda di Daniele, il nostro modo di suonare ciascuno il proprio strumento, risultano essere molto vicine alla nostra musica».
All'interno dell'album ci sono due tuoi monologhi, "Roma maledetta" e "Tempo perso". Perché Roma è "maledetta"?
«La canzone parla della storia di Roma attraverso tutti i fatti di cronaca nera, quindi dal primo, dal fratricidio di Romolo e Remo, fino a quelli dei giorni nostri. Siamo sempre innamorati della nostra città, ma ci piace raccontarla sotto tutti i punti di vista e sicuramente uno degli aspetti tipici di Roma è questa leggerezza che si ha, a volte, nel discutere notizie rilevanti. Al bar si parla di crimini, assassinii scherzando, ridendoci su, sdrammatizzando, come se l'importante fosse, poi alla fine, quello di non essere noi i protagonisti della storia di cronaca nera in questione. La si vive in maniera leggera. Si parla appunto di estetica della negatività».
A proposito di fatti di cronaca nera a Roma, c'è un qualche riferimento anche al caso molto discusso di Stefano Cucchi?
«No, in questo caso no. Ma abbiamo affrontato la storia di Stefano nel disco precedente. C'è una canzone che si chiama ‘Figli come noi' che parla di abusi in divisa, dedicata proprio a questo tema, non solo alla storia di Cucchi ma anche di tanti altri ragazzi. In questo caso specifico invece si arriva a raccontare fino al bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio 1943».
Invece l'altro monologo, "Il tempo perso", di cosa parla?
«Ne ‘Il tempo perso' utilizzo come pretesto uno studio di settore che ho letto di recente e che racconta quanto tempo passiamo a fare determinate cose. Ad esempio passiamo undici anni in media a dormire. Nel racconto riporto i numeri precisi. Questa riflessione mi ha dato lo spunto per parlare dello scorrere del tempo e di come sfugga di mano, tema ricorrente del disco tra l'altro».
Infatti sulla copertina dell'album c'è un orologio, insieme a un serpente e a un pettirosso...
«Esatto. Il pettirosso e il serpente rappresentano il dualismo del bene e del male, e sono separati dal tempo che scorre. Quindi, se lo vogliamo vedere in chiave didascalica, racconta questo, poi naturalmente ci sono numerose altre sfumature».
Marco Giallini e Vinicio Marchioni, romani e romanisti, hanno partecipato al video di lancio di due dei testi dell'album. Com'è stato lavorare con loro?
«Lavorare con loro è stato molto bello perché entrambi sono simboli della città e approcciano al loro lavoro e anche alla loro vita in maniera molto popolare, come facciamo noi. Sono molto legati alle radici, vicini alla gente. Non c'è da parte loro un atteggiamento di élite. Il nostro modo di fare musica dal basso, alla pari, si sposa bene con due persone come loro che, pur avendo un enorme successo, affrontano la vita in questo modo e quindi si è inevitabilmente creata una stima reciproca, molto forte».
Più in generale, qual è il rapporto del Muro del Canto con la città di Roma?
«È un rapporto di amore e odio, come accade a tutte le persone che vivono la nostra città, e che passano dall'essere estasiate da uno scorcio bellissimo all'essere incazzate per la fila sul GRA oppure dispiaciute nel vedere la città sporca, con rifiuti che devono ancora essere ritirati, ma poi felici di vivere in una città multiculturale, in una città che accoglie, che molto spesso dà il meglio di sè proprio nelle relazioni con le persone. Perché alla fine la cosa più bella di Roma sono proprio i romani».
E invece con la Roma?
«Personalmente sono romanista, tra l'altro cito la Roma in un monologo del disco precedente. Il brano si chiama ‘Domenica a pranzo da tu madre' e racconto la domenica a pranzo dai genitori, poi, a un certo punto, chiedo a mio padre ‘papà hai visto per caso la Roma oggi con chi gioca?'. Vivo l'amore per la mia squadra come una passione, una fede, una tradizione trasmessami in famiglia che porto con me da quando sono nato e che mi lega molto alla mia città. Anche molti altri componenti della band sono della Roma. E su Facebook un nostro fan ha creato "Il muro del canto racconta l'As Roma", una pagina molto carina, ne siamo molto contenti. Lo ringraziamo».
Nelle vostre canzoni musica e tradizione romana si fondono alla perfezione. Qual è il valore aggiunto dell'utilizzo del dialetto nel panorama musicale italiano?
«Per noi l'utilizzo del dialetto è stato sempre un elemento di forte legame con il pubblico. Quando utilizzi una lingua colloquiale, dialettale, che si usa tutti i giorni per strada, chi ti ascolta si sente molto più vicino a te, non percepisce quella distanza che un lessico troppo perfetto, troppo pulito mette tra le persone. È sempre bello quando c'è uno scambio diretto. A me fa piacere ascoltare una persona che parla in dialetto, che si rivolge a me con una certa cadenza, specifica di una città, che non deve essere per forza Roma. Questo è stato il nostro punto di forza per creare una famiglia, un grande seguito di persone che si sentono parte di una grande comunità».
Il folk capitolino è un genere ultimamente molto in voga. Ve ne sentite parte?
«Penso che questa sia una valutazione da lasciare a chi ascolta. Tutti quelli che adesso fanno musica romana, e che giustamente le interpretano ciascuno a proprio modo, portano avanti uno stile estremamente riconoscibile. Non credo ci sia una vera e propria ‘scena di folk capitolino' ma sicuramente ci sono tutta una serie di persone che si impegnano a portare avanti il dialetto per far sì che non si perda. È giusto che ci sia un filone di musica dialettale riconoscibile e che a portarla avanti siano più gruppi. È importante non perdere le nsostre radici».
Nel tour di presentazione non ci sono date romane. Come mai?
«È stato fatto appositamente. Perché vogliamo che Roma sia la data più importante e quindi la teniamo per ultima. Sarà una grande festa, alla fine del tour, che si svolgerà probabilmente a febbraio 2019».
I progetti futuri de "Il Muro del Canto".
«Dobbiamo portare avanti questo disco e sicuramente la cosa per almeno un paio di anni ci terrà impegnati. Poi magari usciremo anche con un quinto album. Ma per ora l'obiettivo primario è portare quello che facciamo anche lontano da Roma. Abbiamo sempre trovato un terreno fertile nel nostro territorio. La sfida è che tutto questo funzioni anche a Milano, Torino, Bologna, Napoli, al Sud, nelle isole. Cercare di ottenere anche lì lo stesso affetto che ci viene regalatoqui, a Roma».
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