"Mi chiamo Totti e salvo vite in mare con la Sea Watch"
È un imprenditore italo-tedesco e ha lo stesso nome del figlio del Dieci: "Con Francesco lontani parenti, ma non ci conosciamo. Gli vorrei regalare la nostra maglia"
«Ciao sono Cris, benvenuto a bordo della Sea Watch». Si chiama Cristian, è un cittadino italo-tedesco che ha un'azienda di materiali meccanici a Wüppertal, in Vestfalia, e nel tempo libero salva la gente in mare. Ha origini italiane e di cognome fa: Totti. Sì, Totti come Francesco. E sì, Cristian come il figlio dello storico capitano e bandiera della Roma per venticinque anni, che attualmente gioca nell'Under 15. Anzi, pur se alla lontana, racconta, è imparentato con il Dieci romanista: «Il mio bisnonno era fratello del bisnonno di Francesco, provenivano da Monterotondo. Era una famiglia molto grande, credo dieci o undici fratelli e sorelle, vivevano a Roma a piazza Grillo. Ma abbiamo perso da molti anni i contatti, da quando mio padre è morto, nel '97».
L'uno, quindi, ignora l'esistenza dell'altro. Anche se Cristian, ovviamente, sa perfettamente chi è Francesco: «Non ci siamo mai incontrati. Non seguo lo sport, non ho una squadra per cui tifo né in Germania né in Italia, però mi piace giocare a calcio. So cosa rappresenta Totti per la città di Roma. Tra l'altro ci sono stato una volta sola in vita mia, magari un giorno tornerò». Magari anche per una "reunion": «Se mi piacerebbe incontrarlo? A chi non piacerebbe, è un personaggio molto positivo». E storicamente molto impegnato per aiutare le persone meno fortunate: «È magnifico quando personalità così famose e amate fanno qualcosa per gli altri, lanciano un messaggio enorme. Mi piacerebbe mandargli la t-shirt di chi è in mare con noi».
Già, il mare: una parte molto importante della vita di Cris (così si fa chiamare da tutti). Ha la doppia cittadinanza, vive tra Wüppertal, sua città natale quarantasei anni fa, e Porto Venere, dove ha una casa di famiglia. Quasi perfettamente bilingue, la vita l'ha portato in Germania, dove è nato da madre tedesca e papà italiano, originario di Roma, ma trasferito molto presto a Milano, dove il nonno, che faceva l'imprenditore, è stato tra i fondatori, dopo la guerra, di una nota catena di giocattoli educativi.
Suo padre si trasferì in terra tedesca per lavoro. Lì Cristian è cresciuto e attualmente ha una sua attività, anche se, ammette, «per fortuna, o per "sfiga", con il pc riesco a lavorare ovunque e questo mi aiuta molto a stare sempre in giro». È un'azienda nella quale è entrato dopo la morte di suo padre, che già lavorava in una ditta di utensili, e fa riferimento a una grossa impresa giapponese per il mercato prima tedesco e adesso europeo. E tra viti, bulloni e pinze, Totti riesce ad assolvere al meglio a una vocazione che è nelle tradizioni di famiglia: aiutare il prossimo.
Ha iniziato giovanissimo. Da quando sua madre era volontaria per "Il Tavolo", un'associazione tedesca: «Era il 1998, sono partito con questa organizzazione che raccoglieva nei supermercati i prodotti in esubero, guidavo il furgone che trasportava gli alimenti per le persone bisognose. Iniziammo con un piccolo mezzo della Volkswagen, ora abbiamo un mezzo enorme della Mercedes. All'inizio nei punti di raccolta venivano 30-40 persone al massimo, ora superiamo le 100 persone che vengono a prendere da mangiare. Facendo questa esperienza ho conosciuto una professoressa tedesca che si occupava di trasporti umanitari per la Bielorussia. Lei aveva iniziato a farlo in piccolo, poi si è strutturata in maniera più professionale con dei tir. Abbiamo rifornito vecchie scuole, asili e orfanotrofi di vestiti, medicine e alimenti. Io ci sono andato per la prima volta nel 2010, sono rimasto davvero impressionato delle condizioni in cui vivono sotto l'autoritarismo di Lukašenko, è come se fossero fermi a trecento anni fa, soprattutto nei piccoli paesi, dove non hanno elettricità e acqua, non hanno nemmeno i bagni in casa e le condizioni dei bambini e degli anziani in particolar modo sono precarie per la diffusione di malattie. Hanno ancora un grosso problema con la radioattività, visto che dall'Ucraina la nube tossica andò verso nord. Circa 50-70 km li separano dal reattore di Cernobyl. Sono un paio di anni che non vado, ma seguo ancora le vicende».
In terra e in mare: Sea Watch
L'attenzione per ciò che accade in mare, invece, nasce proprio in Italia: «Sì, ero a Porto Venere quando iniziai a leggere la prima documentazione relativa alla Sea Watch 1. Mi incuriosì la storia di queste tre famiglie dell'ex Germania Est che avevano visto cosa era successo a Lampedusa nel 2014 e si sono dette "non è possibile che al mondo succedano ancora cose del genere di questi tempi".
Sono partiti semplicemente chiedendosi: "Cosa ci serve? Una nave". E l'hanno comprata in Olanda. Era un peschereccio di 120 anni che navigava nel Mare del Nord. L'hanno portata ad Amburgo, poi sono partiti e in sei o sette settimane sono arrivati a Lampedusa. Poi hanno creato un sito e hanno trovato subito un riscontro: c'erano diversi volontari che volevano partecipare a quel progetto e si sono incontrati. Quelle persona non sapevano niente del mare, erano dell'entroterra di Berlino. All'inizio c'è stato l'investimento di quelle tre famiglie, poi il progetto si è diffuso e s'è iniziata la raccolta fondi, possibile grazie al bambino che dona i 5 euro del suo compleanno o alla Chiesa evangelica tedesca che finanzia l'aereo che sorvola Lampedusa per i monitoraggi».
Così, nel 2015 Cristian decide di candidarsi e mettere al servizio degli altri le sue capacità: «Ho fatto un elenco di tutto ciò che so fare: parlo italiano, so arrampicarmi, so andare sott'acqua, ho la patente nautica, so fare il meccanico. E così ho inviato loro la domanda. Mi chiamarono a gennaio del 2016, chiedendomi se fossi libero per il weekend per andare ad Amburgo dove c'era la prima riunione per conoscersi. Avevo visto che il periodo della missione era di due o tre settimane e per me poteva andar bene. C'erano già la Sea Watch 1 e 2. La missione era poi a metà maggio».
Da quel giorno ha già partecipato a sei missioni, tutte nel Mediterraneo, conciliando il tutto con l'impegno lavorativo della sua azienda: «In missione non posso non lavorare completamente, quindi anche per questo quando c'è connessione a internet, quando finisco i turni sulla nave, mi metto con il computer e seguo a distanza le vicende di casa». E da un po' di tempo a questa parte «a inizio di ogni anno facciamo delle riunioni per pianificare le missioni. Ognuno dice quando potrebbe imbarcarsi. Negli ultimi tempi non si può mai prevedere quanto durerà una missione, anche se normalmente siamo sempre sulle tre settimane e mezzo». E non si vive solo di spedizioni, ma anche di preparazione: «A settembre 2018 ho partecipato ad Augusta all'allestimento della nave, siamo andati in Sicilia con il nostro Ceo, o meglio la persona più alta in grado dell'associazione, che, sembra strano, ha 28 anni...».
L'importanza di far sapere
Avrà pure avuto la ribalta internazionale per le vicende di cronaca legate ai dissidi con il governo italiano e l'ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, ma l'ultima missione, in estate, «non è che fosse così speciale, abbiamo salvato un barcone di numero, una situazione abbastanza semplice, avevamo ricevuto dal nostro aereo la posizione del mezzo dei migranti, siamo andati con due gommoni venti miglia avanti, la nave è lentissima, fa 9 nodi (16 km/h). Ci hanno chiesto "Perché non siete andati in Olanda invece di sbarcare in Italia?". Ovvio: perché ci mettiamo un anno… È stato un soccorso "facile", abbiamo messo a bordo i migranti agevolmente».
Una situazione molto diversa da esperienze passate, che hanno contribuito a segnare la vita di Cristian: «Nel 2016 ogni giorno facevamo cinque barconi. Nella mia prima vera missione, il primo giorno nella prima ora c'erano quindici barconi, oltre a navi militari e elicotteri, era una zona di guerra, in pratica. Ho visto molti morti, sono stati momenti molto duri. Alcuni barconi avevano al loro interno 100, addirittura, 180 persone».
Le cronache, però, hanno reso mediatica la navigazione e l'attracco in Sicilia, con una protagonista che ha diviso la politica e l'opinione pubblica, la capitana Carola Rackete: «Era già la mia capitana quando ho fatto la prima missione. È una persona molto determinata, sa quello che vuole e sta con la schiena dritta. Inizialmente non doveva essere lei la capitana. Sulle decisioni che ha preso abbiamo partecipato tutti, lei ascoltava tutto l'equipaggio, siamo tutti volontari e si parla insieme. Arrivare nelle acque territoriali italiane è stato eccitante, anche noi aspettavamo con ansia di capire cosa sarebbe successo. Era chiaro che il governo italiano dopo due o tre volte che eravamo entrati ci avrebbe creato dei problemi, ma io credo che le leggi si possono cambiare, invece la morale resta sempre la stessa». Con Carola e con gli altri, dopo il ritorno in porto, si sono risentiti, in attesa di notizie soprattutto dai tribunali: «Abbiamo il gruppo di Whatsapp, all'inizio dopo lo sbarco non è stato semplice, Carola non poteva comunicare. Ora è libera. Anche di riposarsi».
Il riposo del guerriero, si potrebbe dire. Perché dopo 25 giorni in mare, con 42 rifugiati a cui badare, come nell'ultima missione, restano tante emozioni e un enorme senso di responsabilità per quello che si è fatto: «Abbiamo lavorato benissimo insieme, ognuno dava il meglio di sé, con alcuni "colleghi" di questo equipaggio già ci conoscevamo, eravamo come una squadra. Durante la navigazione abbiamo avuto la visita della Guardia di Finanza, della stampa, dei parlamentari. Io facevo il traduttore e facevo loro da Cicerone nella nave, far vedere loro gli "ospiti" (chiama così i rifugiati, ndr) mi ha fatto stare male, era come una visita allo zoo con animali in gabbia, ma era importante quel passaggio: il mondo deve sapere cosa succede».
Tra le sensazioni che restano, assicura Cristian, c'è quella di aver centrato l'obiettivo, di esser riusciti in ciò che accende il motore del cuore e fa salpare verso il largo: «Il momento più bello è sempre quello che segue i salvataggi, sulla nave. I migranti erano tutti a festeggiare, ballare, urlare per la gioia e io mi sono sentito come quello che ha fatto il gol decisivo. Sono venuti ad abbracciarmi quando hanno realizzato che ero io che guidavo il gommone. Una bella scena, ma anche molto triste, perché noi già sapevamo che il loro viaggio non era finito».
Ma se c'è un presente e se ci sarà un futuro per gli ospiti di quella nave battente bandiera olandese è grazie all'opera di salvataggio civile in mare svolta da persone come Cristian Totti, che ha il cognome da capitano e le sue giocate le fa in acque tutt'altro che calme, perché semplicemente non gli piace vedere la gente annegare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA